Lo psicopedagogista Stefano Rossi: «Siamo arrivati al paradosso di avere paura dell’educazione sessuo-affettiva piuttosto che della violenza scaturita dall’analfabetismo emotivo»
A poche ore dal femminicidio di Pamela Genini, la commissione Cultura della Camera ha approvato un emendamento della maggioranza al disegno di legge del ministro Giuseppe Valditara che prevede un clamoroso dietro front, vietando «tutte le attività didattiche e progettuali attinenti all’ambito della sessualità», sia alla scuola primaria, sia alle medie, dove attualmente possono essere tenute da esperti esterni, su previa autorizzazione dei genitori. Una decisione che agli occhi di molti – pedagogisti in primis – appare inopportuna, anacronistica, lontana anni luce dalla realtà che viviamo e dalle scelte di altri Paesi come Spagna e Irlanda, che hanno l’educazione affettiva come materia scolastica, e in particolare della Svezia, che ha introdotto l’educazione sessuale a scuola ben 70 anni fa.
Tra le voci più autorevoli in materia c’è quella di Stefano Rossi, psicopedagogista che da oltre vent’anni si prende cura delle emozioni di bambini, adolescenti e genitori, coordinando anche centri per i minori a rischio e formando sul concetto di «educazione motiva» centinaia di scuole in Italia. Proprio in questi giorni è uscito il suo nuovo libro dal titolo Genitori in Ansia – Trasforma le tue paure nelle ali di tuo figlio, edito da Feltrinelli, con cui offre ai genitori (e in generale gli educatori) una guida per riconoscere e trasformare le proprie fragilità, offrendo anche strategie pratiche per non far sì che i timori sabotino la crescita di bambini e adolescenti.
Perché è importante l’educazione sessuo-affettiva?
«Perché abbiamo un cervello emotivo che ha radici antichissime e in queste radici ci sono dei meccanismi di difesa di attacco e fuga assolutamente brutali. La logica di questa forma di educazione è pertanto insegnare a bambini e a ragazzi, dentro e fuori dalla scuola, a dare un nome alle proprie emozioni».
Questo c’entra con la prevenzione della violenza?
«C’entra, perché se io so dare un nome alle mie emozioni, se le so vedere, se le so capire, non le scarico in comportamenti auto o eterodistruttivi».
Il nuovo orientamento politico, però, è propenso a bloccare del tutto l’educazione sessuo-affettiva che si stava cercando di introdurre nella scuola…
«Un autogol clamoroso. Siamo arrivati al paradosso di avere paura dell’educazione sessuo-affettiva invece della violenza che scaturisce dall’analfabetismo emotivo. Da questo punto di vista per me è una scelta sciagurata. Anche perché, come spiego bene nel nuovo libro, ciascuno di noi ha quella che si chiama una “finestra di tolleranza alle emozioni”».
Di che cosa si tratta?
«È una sorta di salvagente psichico che ci consente di non esplodere immediatamente e in modo violento. La ricerca ci dice che se noi insegniamo ai bambini e agli adulti adolescenti a fare amicizia con le proprie emozioni, questo salvagente, questa finestra di tolleranza, diventa più ampia. Ciò non vuol dire che un bambino o un ragazzino non avrà mai una crisi legata alla rabbia, al dolore o alla paura, ma con un salvagente emotivo più robusto avrà migliori probabilità di non annegare nelle emozioni e non far annegare gli altri. Perché, in definitiva, la violenza è sempre legata a una disregolazione di tipo emotivo. Tant’è vero che questi atti si fondano sempre su dei meccanismi perversi di tentato omicidio-tentato suicidio».