Cultura

Lady Gaga – Mayhem :: Le Recensioni di OndaRock

Chissà cosa deve essere passato per la testa di Lady Gaga quando, appena finito di registrare un nuovo album che nelle intenzioni doveva allontanarla da quelle ballatone adult-oriented con cui il grande pubblico ultimamente vorrebbe identificarla, ha accettato di collaborare con Bruno Mars per quella “Die With A Smile”, anch’essa perfetta per karaoke e matrimoni, che si è infine rivelata un enorme e forse inaspettato successo. “È un progetto a parte, non farà parte dell’album in arrivo perché non attinente alle sue sonorità”, precisarono subito i suoi rappresentanti discografici. Un album caratterizzato da sonorità electro-industriali e umori dark che fanno bella mostra di sé nel vero singolo di lancio del nuovo progetto, l’aggressiva e magniloquente “Disease”. Forte di un glorioso refrain, è probabilmente il miglior singolo di Lady Gaga dai tempi di “Born This Way” ma nonostante questo la sua pubblicazione è stata letteralmente offuscata dall’ormai celebre e ingombrante duetto (e dal chiacchierato flop cinematografico di “Joker: Folie à Deux” e relativo album jazzy di accompagnamento, “Harlequin“).

Normale correre ai ripari in una situazione simile in ambito mainstream: “Il duetto farà parte dell’album, è sempre stato così”; sia mai che un album pop, seppur buono, non debba contenere almeno un singolo sbanca-classifiche. Che poi un’altra hit alla fine sembra essere arrivata davvero: frullando le coordinate di cui sopra con le sue solite ecolalie, omaggi a Siouxsie Sioux e bridge operistici, l’ultimo singolo “Abracadabra” è stato accolto trionfalmente dai little monsters, anche se al netto di un efficacissimo hook creato ad hoc per accompagnare reel su TikTok e di un riuscito videoclip auto-referenziale, il risultato anela più alla goffa pacchianeria di “Judas” che alla perfezione pop di “Bad Romance”.
La domanda nasce quindi spontanea: un pezzo old-fashioned e romantico come “Die With A Smile” non rischia di stare come i cavoli a merenda in un contesto sonoro così massimalista e cupo, intitolato addirittura “Mayhem”? La risposta è in effetti affermativa, ma per motivi diversi da quelli che era lecito aspettarsi.

Metabolizzati i due singoli ufficiali (nonché primi pezzi in scaletta), la percezione di ciò che si sta ascoltando cambia repentinamente già dal terzo brano. È infatti la melodiosa e più rassicurante “Garden Of Eden” a fungere da vero indicatore su quella che sarà l’ossatura portante dell’album. Lady Gaga stavolta si è rifugiata nel suo passato, soprattutto in quelle tracce che facevano da contorno ai quattro singoloni del suo album di debutto, e quindi in quella pop-dance tirata a lucido ma tutto sommato canonica, spruzzata di funky-disco, coi suoi beat sempre sul filo della superficialità e che negli anni a venire è diventata fonte di ispirazione per tante, non proprio memorabili, starlette.
Quando l’autocitazione le viene bene ecco tirare fuori dal cilindro numeri impeccabili come l’euforica “LoveDrug” che non sfigurerebbe (anzi…) nella tracklist di “The Fame”, altrove però rischia di non far mangiare la polvere a una Ava Max qualsiasi (“Vanish Into You” e “Don’t Call Tonight”) o, nel migliore dei casi, alla Taylor Swift più zuccherosa (“How Bad Do You Want Me”).

La Germanotta ci prova a dare più nerbo e grinta per giustificare gli sbandierati e disattesi intenti del progetto: qualche schitarrata sintetica, una ruvida crosticina elettronica e la sua aggressiva attitudine vocale da “adesso entro in scena e spacco tutto” (tutti escamotage che finiscono per azzoppare pezzi come una “Perfect Celebrity” in odor di Garbage e l’oscura ballad “The Beast”), illudendosi e illudendoci che basti un collare borchiato per trasformare un chihuahua in un pitbull. Per far funzionare tutto a dovere sarebbe forse servito un tocco house più french, massicce dosi di ironia (ci riesce vagamente in “Zombieboy”) o sensualità. Quando infatti entra in cabina di regia Gesaffelstein (in aiuto del canadese e più convenzionale Cirkut) il risultato cambia drasticamente e “Killah”, senza troppi sforzi, spicca tra i pezzi forti dell’album, anche se coi suoi riff funky più che rievocare la “Famebowieana finisce col ricordare soprattutto le comunque nobili sperimentazioni dei Duran Duran a cavallo tra gli 80 e i 90.

Fortunatamente meno camp del precedente “Chromatica” e più compiuto melodicamente, “Mayhem” suona quindi come un disco restauratore di un’appena trentanovenne Lady Gaga che, pur non mantenendo le premesse, farà comunque la gioia dei suoi primi ammiratori, ormai nostalgici, ma meno di chi si aspetta ancora composizioni più forbite e mature. Una costante in una carriera ancora troppo avara, dopo il terremoto dell’esordio, di pezzi veramente eclatanti, ma che sicuramente non annoia nella sua caotica imprevedibilità.

10/03/2025




Source link

articoli Correlati

Back to top button
Translate »