Miriam Rebhun: «Ho ritrovato mia cugina dopo 76 anni»
Per non dimenticare, perché quel 27 gennaio del 1945, 80 anni fa, fu il giorno in cui finì l’Olocausto, quando le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. La fine di un incubo, vergognoso e disumano, che, oltre ai milioni di vittime, ha lasciato cicatrici, fisiche e mentali, anche su tutti quelli che sono sopravvissuti.
Gli ebrei, dopo quella persecuzione, hanno spesso dovuto pagare il prezzo anche di uno sparpagliamento delle famiglie: scappati qui e là, si sono ricongiunti, ma non sempre ci sono riusciti e non sempre si sono ritrovati nello stesso luogo da dove erano partiti.
La storia di Miriam Rebhun
Miriam Rebhun, ebrea, napoletana, classe 1946, professoressa di Italiano e Storia per tutta la vita, ha scritto diversi libri, che spesso raccontano storie di famiglia: «Non ho vissuto la guerra, non sono una sopravvissuta allo sterminio, ma sono figlia ed erede del nazismo e delle leggi razziali fasciste. Senza il nazismo, Heinz, mio padre, e Gughi, mio zio, con molta probabilità non avrebbero lasciato Berlino per rifugiarsi in Palestina. Heinz non si sarebbe arruolato nella Brigata ebraica al seguito degli Alleati, non sarebbe mai giunto a Napoli e non avrebbe conosciuto Luciana, mia madre. Allora mi chiedo: chi viene da una storia così, ha o non ha titolo per sentirsi una testimone?».
Ma lei, sì, indubbiamente è una testimone, capace, nei suoi libri, di mettere insieme i pezzi di un’incredibile storia familiare e ora, con l’ultimo pubblicato, La dedica (casa editrice Giustina) è riuscita a trovare un tassello di cui ignorava addirittura l’esistenza: una cugina, Daphna, sua coetanea, figlia di Kurt Emanuel Rebhun, detto Gughi, fratello gemello di suo padre. La loro vita è quasi parallela: entrambi i loro padri quando scoppia la seconda guerra mondiale si arruolano nell’esercito britannico, poi riescono entrambi a tornare in Palestina e ad avere figli, ma perdono la vita nel 1948 (Heinz ucciso da un cecchino su un autobus mentre andava al lavoro, Gughi morto durante la guerra d’Indipendenza). Figlia di Heinz e di Luciana, Miriam, l’autrice, dopo la morte del padre viene riportata in Italia e cresce insieme alla madre. Resta in contatto con i figli che Gughi ha avuto da donne diverse, Ilana e Chaja. Ma in realtà Gughi aveva avuto un’altra relazione, con Hanna, che però lui lasciò quando lei era incinta. Nel 1946, Hanna partorì Daphna, di cui nessuno, della famiglia Rebhun, aveva mai saputo nulla fino al 2022. Cresciuta a Berlino, senza alcun legame con la famiglia del padre, venne ritrovata per caso, per un messaggio lasciato sulla pagina web che ricorda Kurt Emanuel Rebhun, lo zio Gughi di Miriam: «Sono Daphna, ho settantasei anni e sono tua figlia. Vivo a Berlino, ora sono in viaggio in Israele e penso a te». Ma chi è Daphna? Nessuno in famiglia ne ha mai sentito parlare.
Perché ha sentito il bisogno di «ricostruire» la storia della tua famiglia? Lo fa per un’esigenza personale o per una responsabilità rispetto alla comunità ebraica?
«È un modo per ricostruire il proprio puzzle degli affetti, ma anche per ubbidire all’imperativo ebraico di tenere vivo il ricordo di chi è stato spazzato via dalla furia della Storia. Le storie di famiglia nella maggior parte dei casi si conoscono attraverso vari canali, i ricordi e i racconti dei più anziani, la presenza degli oggetti passati da una generazione all’altra, le foto fino a pochi anni fa raccolte negli album o ammucchiate alla rinfusa in un cassetto. Il tutto compone narrazioni spesso sentite e risentite e crea un quadro più o meno attendibile e particolareggiato della realtà familiare che ci ha preceduto. Questo per me si è verificato a metà, ho assorbito in questo modo la memoria della famiglia materna italiana, ma non ho potuto fare lo stesso con quella della famiglia paterna tedesca perché della famiglia Rebhun, di cui porto il cognome, non ho conosciuto nessuno. Nel gennaio del 1948, due anni dopo la mia nascita, mio padre Heinz era rimasto ucciso in un attentato arabo a Haifa, nella Palestina allora sotto Mandato Britannico e a maggio dello stesso anno il suo fratello gemello Gughi era caduto in battaglia nella guerra scoppiata all’indomani della proclamazione dello Stato di Israele. Erano ebrei i due fratelli che, nati nel 1918 a Berlino, a diciotto anni, nel 1936, per sfuggire alle leggi razzali naziste, avevano lasciato genitori, parenti, amici, avevano rinunciato a aspirazioni e progetti ed erano emigrati in Palestina, un territorio sconosciuto dove inventarsi una nuova vita. Nel 1946 a Heinz e Gughi, dopo lunghe e affannose ricerche, era stato comunicato dalla Croce Rossa internazionale che i loro genitori, Leopold e Frida e i parenti rimasti in Germania non risultavano in nessuna lista dei sopravvissuti di quel genocidio a cui più tardi sarebbe stato dato il nome di Shoah, in lingua ebraica “catastrofe senza rimedio”. E io, che ero l’erede di questa catastrofe, l’erede di un vuoto di racconti, di un buco nella memoria, l’anello di un catena di generazioni che non trovava i precedenti a cui agganciarsi e non avrebbe potuto tramandare nulla agli anelli seguenti, i figli e i nipoti. Fin da piccola ho capito che l’unico modo per conoscere questa storia era ricostruirla pezzo a pezzo. All’inizio qualche raro racconto di mia madre che, rimasta vedova giovanissima, soffriva a riaprire la ferita, qualche testimonianza di amici di famiglia, qualche foto che mi ritraeva a Haifa tra i miei genitori avevano formato una specie di canovaccio che negli anni con una sorta di accanimento ho arricchito con ricerche di archivio, con documenti provenienti dalla Germania e da Israele, con le lettere scritte da mio padre e le sue foto conservate in una vecchia e ben nascosta scatola di latta. Certamente un’esigenza personale la mia, ma anche frutto di un abito mentale tipicamente ebraico. “Zachor! Ricorda!” È un imperativo contenuto nella Bibbia, un mezzo con cui il passato si lega al presente e serve da insegnamento e spinta per il futuro, un modo perché chi non c’è più non scompaia del tutto e la sua vita possa essere ancora di esempio».
Che cosa significa per lei andare in Israele, a incontrare quella parte della sua famiglia?
«Alla morte di Heinz mia madre è tornata con me in Italia, a Napoli, dove ho sempre vissuto, i due figli di Gughi sono rimasti invece in Israele. Sono tornata per la prima volta in viaggio in Israele nel 1962 e poi tante altre volte vedendo ogni volta un paese diverso, che tra mille difficoltà progrediva e assumeva una sua fisionomia. Ogni volta ho incontrato i cugini e le loro famiglie. Non erano incontri facili, c’era la difficoltà della lingua, i vissuti diversi, la scarsa confidenza. I nostri padri, unico legame tra noi, erano due entità sconosciute e le nostre madri, forse per proteggerci, non ci avevano quasi parlato di loro. In Ilana e Chanoch, i miei cugini, non vedevo il mio stesso interesse per la storia di famiglia che andavo man mano ricostruendo e da cui sono poi nati due libri, piuttosto notavo una sorta di rimozione di cui però, con il tempo, ascoltando l’andamento delle loro vite, capivo il perché. I risultati delle mie ricerche invece suscitavano interesse nei nipoti, specialmente in Noa, che era curiosa di leggere quello che scrivevo e mi faceva tante domande. Così, anche se lontani, non ci siamo mai persi di vista».
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