Sharon Van Etten & The Attachment Theory
Who wants to live forever?
Uno sfondo sintetico, un battito di drum machine e la voce limpida di Sharon Van Etten che interpella chi ascolta, ma anche se stessa, e che ci invita così a meditare sulla caducità dell’esperienza umana. Come affrontare l’ineluttabile sopraggiungere della morte? Beh, per Van Etten il primo passo è stato quello di fondare per la prima volta durante la sua carriera da musicista una band e di scrivere e realizzare un disco insieme a essa. Una svolta artistica che non solo modifica l’approccio compositivo della cantautrice statunitense, ma che ne riorienta completamente anche la scrittura verso una musica ammantata di un’aura dark e ieratica. Del resto, il tributo al rock gotico degli anni Ottanta è palesato già dall’immaginario iconografico a cui copertina, video e gli altri aspetti visivi del progetto rimandano. “Sharon Van Etten & The Attachment Theory”, però, non è un semplice disco goth o post-punk, né il mero recupero di una precisa estetica musicale e sociale. Si tratta piuttosto di una brillante testimonianza della capacità di un’artista di appropriarsi di stilemi differenti e di integrarli armoniosamente con quell’indie rock americano di cui è una delle principali rappresentanti.
Il risultato di questo nuovo approccio è una raccolta compatta e coesa, anche se la qualità dei singoli brani non è sempre eccellente come lo era stata recentemente in “We’ve Been Going About This All Wrong” o nell’ormai classico “Are We There”. A controbilanciare una parte centrale un po’ sbiadita, ci pensa però una triade iniziale davvero fenomenale. Se la traccia iniziale si eleva e gonfia progressivamente su un giro di accordi che richiama il dream-pop dei Beach House, il pop-rock sintetico di “Afterlife” e l’indie rock di “Idiot Box” puntano tutto su linee melodiche immediate e trascinanti. E non è infatti difficile immaginarsi l’impatto catartico che i ritornelli dei due brani possono avere durante i futuri concerti della band: in un’arena, durante un festival all’aperto o, come vorrebbe Sharon Van Etten, in un club sudante.
Dopo l’incedere marziale di “Southern Life (What It Must Be Like)”, il disco si chiude con due lunghe tracce che sembrano entrambe fungere da canzone di congedo. Si crea così una sospensione paradossale proprio sugli ultimi versi di “Fading Beauty” (“The inherent beauty of light/ the fading beauty of life”), che recuperano il contrasto tra vita e morte con cui si apriva la raccolta. Ed ecco che qui, sul calare del silenzio finale, la voce della musicista rientra in scena e recita, accompagnata da un battito sotterraneo, versi che celebrano la materialità dell’esistere in tutte le sue forme. Con uno sguardo che taglia trasversalmente rocce, oceani, catene montuose e le viscere della terra, Van Etten fa convergere spazio, tempo e tutti gli atomi del cosmo in un singolo momento di estasi. Uno dei tanti che ci ha regalato in una carriera straordinaria che, nonostante tutto, continua a sorprenderci.
And I want you here
Even when it hurts
And I want you here
Even when it gets worse
And I feel the change
And I feel the rage
It sets the stage
A moment
13/03/2025