Perché serve difendere il pluralismo dell’informazione
Il pluralismo dell’informazione è come l’ossigeno: invisibile, ma vitale. Nessuna democrazia respira davvero se l’aria pubblica è satura di poche voci forti e sorda ai suoni leggeri, ma essenziali, delle comunità locali. Per questo la sentenza del 15 aprile della Corte costituzionale, Presidente Amoroso e giudice redattore Pitruzzella, pur dichiarando non fondate le questioni sollevate dal Consiglio di Stato, tocca un punto sensibile del nostro assetto democratico: la tutela delle voci fragili nell’ecosistema mediatico.
Al centro del caso c’è lo «scalino preferenziale», un meccanismo che riserva il 95% dei fondi pubblici alle prime cento emittenti locali classificate. Una logica che mira all’efficienza, ma che può tradursi in concentrazione. Perché se l’idea è premiare chi ha struttura, ascolti e continuità, il rischio è di costruire un pluralismo a geometria selettiva: aperto in teoria, ma difficile da raggiungere per chi parte dai margini.
La Corte, pur legittimando la scelta del legislatore –– non ignora le implicazioni più profonde. E lo fa in un passaggio cruciale della motivazione, che sembra rivolgersi non solo al diritto, ma anche alla politica e alla società: l’informazione oggi vive in un ecosistema radicalmente mutato. Le barriere tecniche sono cadute, i costi di accesso si sono abbassati, internet ha moltiplicato i canali, le voci, le occasioni di espressione.
Eppure, questa abbondanza – apparentemente democratizzante – non garantisce qualità. Il pluralismo quantitativo, scrive in sostanza la Corte, può generare disordine, rumore, polarizzazione. La moltiplicazione delle fonti non coincide con la moltiplicazione della responsabilità. E la crisi del giornalismo professionale, specie a livello locale, rischia di lasciare un vuoto che la rete non colma, ma espone.
La sentenza cita un dato chiave: la quantità di informazioni e di punti di vista si è accresciuta enormemente grazie a internet. Ma questa ricchezza, pur importante, si accompagna a nuove vulnerabilità. Perché mentre si è assistito alla moltiplicazione dei canali – dai blog ai siti locali, dai podcast alle newsletter – è venuto meno il tradizionale ancoraggio a criteri di responsabilità editoriale. La verifica delle fonti, il controllo redazionale, la mediazione giornalistica hanno ceduto il passo a una comunicazione immediata, spesso emotiva, poco filtrata.
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