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Perché la rivoluzione non è roba da Juventus: da Sarri al fallimento di Thiago Motta, la storia si ripete

Nel calcio esistono poche certezze e una di queste è che nella Juventus la parola rivoluzione è un corpo estraneo: tutte le volte che si prova a cambiare strada, l’avventura finisce male. Capitò a Maifredi, nella stagione 1990-2021. È accaduto con Maurizio Sarri vent’anni dopo, nonostante la conquista dello scudetto 2019-2020, l’ultimo della lunga serie. Si è ripetuto con Pirlo, che pure vinse una Coppa Italia e una Supercoppa tra 2020 e 2021. Sta per succedere con Thiago Motta se, come indicano gli ultimi rumors, all’allenatore italo-brasiliano sarà dato il benservito dopo otto mesi di lavoro, a prescindere dal risultato del match contro il Genoa.

Non si sfugge alla propria storia. Quella della Juventus fu condensata in uno slogan, un giorno, da Giampiero Boniperti: “Vincere non è importante: è l’unica cosa che conta”. Brutale, antisportiva, cinica, ma tant’è: almeno lui, Boniperti, ebbe il coraggio di dire la verità. Il resto, comprese le frasi di pochi giorni fa, di qualche dirigente juventino, solo fuffa. Perché poi nella vita le cose che contano, tanto per restare in tema, sono i fatti, non le parole. La Juventus è epidermicamente allergica alle rivoluzioni perché è figlia di una cultura industriale in cui si è sempre badato al sodo. La 500 è stata, è e sarà, l’auto simbolo della FIAT: si porta dietro l’epica di un paese che stava risorgendo dalle macerie di una guerra e che con quel capolavoro di meccanica permise la mobilità, fino a quel momento negata, a milioni persone.

La 500 non è una semplice utilitaria: è la regina delle utilitarie. Nei vari modelli della storia, il criterio base è sempre stato quello di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Uno sforzo geniale, ci mancherebbe, ma rivolto alla migliore resa possibile. Non contavano la bellezza del modello, l’eleganza o gli optional: il segreto era quello di avere un motore affidabile, consumare poco, resistere al tempo. Ci sono persone che sono partite da Roma e sono sbarcate con la 500 a Londra o Parigi. Piccadilly Circus e Campi Elisi percorsi con quel prodigio inventato in Italia: straordinario.

La parabola della Juventus è stata prigioniera di questa storia. I migliori successi e i periodi d’oro sono stati legati, guardando la cronaca dell’ultimo mezzo secolo, a piloti concreti, con la guida senza fronzoli: Giovanni Trapattoni, Antonio Conte, Massimiliano Allegri. Il più creativo tra i concreti è stato Marcello Lippi. L’allenatore viareggino è stato il massimo della trasgressione che la Juventus si è concessa. Supportato, va ricordato, da Luciano Moggi e Antonio Giraudo. Quando si è cercato di affrontare una strada più panoramica, è andata male. Per affrontare il rischio serve non solo coraggio, ma anche pazienza. Bisogna dare tempo al tempo, anche perché le rivoluzioni, quelle vere, non si preparano in un giorno.

Altra storia è poi quella dei leader scelti per i cambiamenti epocali. Tra i nomi citati dei grandi sogni svaniti, solo uno aveva il carattere e la personalità del grande capo: Maurizio Sarri. Gli altri, per ragioni diverse, non avevano e non hanno lo spirito del condottiero. Un conto è cavalcare la modernità, altra storia è innovare e cambiare in senso profondo. L’ennesima rivoluzione mancata della Juventus è figlia di tanti errori: di voler andare contro la propria storia, di non avere pazienza e di aver scelto, probabilmente, i comandanti sbagliati per guidarla. Si torna quindi alla casella di partenza: come nel gioco dell’oca. Anche questa, se vogliamo, un’immagine perfetta.


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