Società

L’incredibile storia di Bada e dei cinque bambini diventati suoi figli

Bada posa di fronte all’ingresso della sua capanna, lei con cinque bambini. L’espressione seria, quasi corrucciata, non indica dolore o disappunto: è lo sguardo fiero di chi ti guarda dritto negli occhi, testa alta, postura eretta, e sente, che tra mille difficoltà, sta vivendo la sua vita dalla parte giusta.

Bada ce lo racconta con parole semplici. Quando Gambaru, la città del nord est della Nigeria in cui viveva, è stata attaccata, lei non ha avuto dubbi: ha preso quello che aveva ed è fuggita. Ma, insieme alle sue cose, ha portato con sé un carico ben più prezioso: cinque bambini, piccolissimi, trovati soli in strada a piangere, i genitori scomparsi, probabilmente uccisi. «Non ho pensato alle difficoltà, non mi sono chiesta se ce l’avrei fatta a sfamarli, sono una persona religiosa, e ho fatto quello che è giusto».

Cinque bambine e bambini soli. Minori non accompagnati o separati dai genitori, come si legge
nei report umanitari. Una delle categorie più vulnerabili e bisognose di aiuto. Separati dai loro
cari, hanno perso la cura e la protezione delle loro famiglie. Sono a rischio di abuso e sfruttamento. Sono forzati ad abbandonare la scuola e a non seguire un percorso educativo e
formativo consono alla loro età. Devono affrontare traumi destinati a lasciare un segno nella loro
psiche. Sono costretti, spesso, ad assumere responsabilità da adulti, come prendersi cura di
sorelle e fratelli più piccoli.

Quando il ricongiungimento con la famiglia di origine non è possibile, trovare una famiglia di
accoglienza può significare farcela, andare avanti, sopravvivere. Così è stato per i cinque
bambini che Bada ha accolto senza esitazione, crescendoli insieme ai suoi due figli. Come figli.

L’organizzazione umanitaria per cui lavoro, Intersos, con il sostegno dell’Unione Europea, li assiste e accompagna nella vita. Ospitandoli negli spazi sicuri dove, anche all’interno di un campo sfollati, i bambini posso giocare, svolgere attività educative, ma soprattutto tornare a vivere la loro età, ricevendo quel supporto psicologico di cui hanno bisogno per superare i traumi vissuti. Fornendo assistenza materiale, con la distribuzione di kit alimentari, kit di abbigliamento e prodotti per la casa e l’igiene personale. E poi un’altra apparentemente piccola, ma decisiva, conquista: l’assistenza legale, a partire dalla consegna dei certificati di nascita, che trasformano quei bambini-fantasma in cittadini.

Ma torniamo alla storia di Bada e dei suoi piccoli. Insieme sono fuggiti fino in Ciad, terra
d’origine della donna (era stato il marito nigeriano, trasportatore di pesce, e scomparso da
tempo per cause naturali, a portarla di là dal confine). Un viaggio difficile: centinaia di chilometri per aggirare il bacino del Lago Ciad, roccaforte dei gruppi armati, ed arrivare sull’altra sponda, al sicuro. Sono trascorsi ormai molti anni. Tutto è cambiato. A Gambaru, città di confine e
piazza di mercato (un ponte la separa dalla camerunense Fotokol), i segni del conflitto sono
ancora evidenti: negli edifici distrutti e mai ricostruiti dopo l’occupazione da parte dei gruppi
armati nel 2014 e la controffensiva dell’esercito nigeriano nei mesi successivi, negli immensi
campi sfollati che continuano ad accogliere chi fugge dalle violenze, nei commerci mai tornati
alla libertà e al benessere di prima della guerra.

Fermiamoci un attimo per spiegare bene dove siamo. Il Lago Ciad, uno dei più grandi
dell’Africa, anche se negli ultimi decenni del XX secolo, a causa dello sfruttamento idrico e del
cambiamento climatico, ha perso circa l’80% delle sue acque. Siamo in uno dei luoghi più
insicuri del mondo, nel cuore di quella che i media hanno spesso definito come «la crisi Boko Haram», dal nome del più noto dei gruppi armati di opposizione attivi in questa zona, in quello che per oltre dieci anni è stato forse il principale epicentro della destabilizzazione dell’area subsahariana. Solo in Ciad, sono 7 milioni quest’anno le persone bisognose di aiuti umanitari, quasi un milione in più dello scorso anno. Un milione e novecentomila le persone che vivono una condizione di insicurezza alimentare grave, circa 700mila in più dello scorso anno.

(Foto INTERSOS / Christian Tasso)

Se prima c’era una qualche normalità, ora non ce n’è traccia: una crisi prolungata,
apparentemente senza sbocco. Campi sfollati che, anno dopo anno, diventano residenza di una
nuova vita. E strategie di resilienza: la forza di chi si adatta alle circostanze. La nuova vita Bada
è in un campo nei pressi di Bol, il principale centro urbano della regione ciadiana del lago, dove
con mentalità da imprenditrice si prende cura dei suoi sette bambini. Si guadagna da vivere aiutando i pescatori a pulire e affumicare il pesce. Il nitore dei tappeti e degli oggetti nell’ampio cortile di fronte alla sua capanna sono i segni di una dignitosa povertà. Nel futuro vorrebbe poter riprendere un’attività commerciale, comprare una piroga per poi affittarla a chi va a pesca nelle acque pericolose del lago, dove il rischio di attacchi armati è ancora alto. Ha 54 anni.

(Foto INTERSOS / Christian Tasso)

(Foto INTERSOS / Christian Tasso)

(Foto INTERSOS / Christian Tasso)


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