Lazio

La menzogna dell’eutanasia

Riceviamo e pubblichiamo

12Non affannatevi a cercare la morte con gli errori della vostra vita, non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani, 13perché Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. 14Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. 15La giustizia infatti è immortale. 16Ma gli empi invocano su di sé la morte con le opere e con le parole; ritenendola amica, si struggono per lei e con essa stringono un patto, perché sono degni di appartenerle. (Sapienza 1)

Leggo solo oggi la nota dell’ANSA, non so se per distrazione o perché non fa più notizia: Daniele Pieroni, poeta di Pescara vissuto a Roma, dal 2008 affetto da Parkinson, giunto al IV stadio con grave disfagia, il 17 di maggio si è tolto la vita secondo le norme della Legge regionale toscana dell’11 febbraio scorso, impugnata dal governo il 9 maggio ma tuttora in vigore fino a decisione della Consulta. 

Mi ci fermo a pensare. È mio compagno di malattia: ho provato anch’io quell’impulso di morte, ma avevo una vita che forse valeva ancora la pena provare, dei buoni amici da cui trarre conforto e un Dio con cui litigare. Cos’è che non hai avuto tu, amico mio di sventura? Il Parkinson non fa danni peggiori di altre patologie, ma ha la caratteristica di cancellare, tessera per tessera, il quadro che avevi di te. È come una goccia che va persa ogni giorno, rendendo sonnolento il procedere del corpo e della mente. Cosa ti ha fatto desiderare la morte?

Daniele è morto medicalmente assistito, e lo annunciano come fosse una bella notizia. Chi avrebbe dovuto curarlo ha preparato le iniezioni per sedarlo e ucciderlo, poi è rimasto in attesa, nel caso qualcosa non fosse andato come doveva. Li ho immaginati con un coltello da caccia in mano per finirlo con mezzi di più sicura efficacia, se l’iniezione non fosse bastata. In quei casi quale sarebbe la procedura da mettere in atto?

Daniele si è suicidato e per alcuni è un trionfo. Mi sento un pesce fuor d’acqua: non trovate perverso gridare vittoria per una sconfitta, festeggiare quello che rimane pur sempre un suicidio? Non è morto di malattia: il Parkinson non uccide, ti rovina solo la vita. Daniele infatti non sopportava la sua disfagia, l’incapacità a deglutire che lo teneva attaccato a una macchina 21 ore ogni giorno. Ciò che riesci ad affrontare al momento lo lasci alle spalle senza pensarci, ma se lo stesso lo vivi ogni giorno, e non sai in quale giorno te ne sarai liberato, ecco che anche una piccola cosa si trasforma in un invincibile mostro. Nel “suicidio assistito” ciò che più attrae è l’avere una data, un traguardo per il quale stringere i denti e avanzare. Daniele non riusciva più ad aspettare, non sopportava il peso di una sconosciuta sequenza di giornate così limitate.

Lascia l’amaro in bocca questa solidarietà da ultimo pasto, puzza di opportunismo da bassa politica. Vale così poco una vita per queste persone che si atteggiano a eroi per aver passato qualche ora a incoraggiare una persona, sofferente e depressa, a darsi la morte? Non è affatto una scelta di libertà quella che loro propugnano, non più di quella di coloro che si gettarono fuori dalle Torri Gemelle per non morire bruciati dagli incendi all’interno. È una fuga, verso un luogo dove non si canta vittoria, non si festeggia una libertà ritrovata, verso il non esserci più. Non ci sono campioni di libertà nel regno del nulla. Il governatore Giani cade addirittura in un involontario umorismo nero quando sostiene che in questo modo si è finalmente «colmato un vuoto»: parlava della mancanza di una legge statale, ma la mente passa a percepire il vuoto creatosi dalla morte di Daniele, e quel vuoto eterno in cui ha preferito tuffarsi per non riemergere più. Non si può che rabbrividire al pensarci. Non vedo cosa ci sia di buono in questa «buona morte» (questo vorrebbe significare «eutanasia») che promuovono ormai da decenni.

Non biasimo Daniele, non so se tra qualche anno avrò forza maggiore di lui. Preferirei altri amici al mio fianco, però. È tutto così perfetto e asettico il momento in cui si prepara l’arma con cui porrai fine alla vita che non ci si accorge che non è tanto diverso dal caricare un revolver, aiutare a prenderlo in mano e a puntarlo alla tempia, e aspettare con un sorriso stampato che sia tu a tirare il grilletto. L’iniezione è educata e civile, ma schizzi di sangue e cervello lasciati sul pavimento da un colpo di pistola renderebbero più evidente ciò che è appena avvenuto: una lacerazione vissuta in vita e portata fin dentro la morte. 

Questi amici così ben educati è bene tenerli lontani quando sei nello sconforto e aneli all’oblio, perché non saprebbero come riempirlo quel vuoto che senti; attendono invece del tutto tranquilli un solo tuo cenno per spingerti dalla cima del grattacielo, congratulandosi a ogni piano che superi nel mentre precipiti. Quanto buio vi è nella mente di chi è così pronto a far morire qualcuno? Da quale abisso proviene quella soddisfazione che vedi sul viso di chi ti vuol render felice fermandoti il cuore? Non trovo risposte.

Chi chiede il suicidio assistito non sceglie davvero la morte, siatene certi. Nessuno desidera piombare nel nulla, non come scelta primaria. Chi rifiuta la vita crede di tornare a quel nulla da cui proveniamo, ma neanche il nulla può esser scelto davvero: non riusciamo a immaginarci come non-esistenti. Si sceglie piuttosto la fuga da un corpo che si è fatto aguzzino a sé stesso e da una psiche che ormai gira a vuoto senza speranza. Si sceglie il sollievo, il benessere come assenza di dolore, ma un benessere che non sentiremo. Si sceglie la morte per affermare il proprio frustrato desiderio di vita. La «buona morte» è un inganno. Tutto è confuso quando ciò che rimane di te, di ciò che pensavi, sognavi e facevi sono tre ore di autonomia dalla macchina che ti nutre e ti idrata.

Si tace sempre di quelle cinque persone su 13, che pur avendo vista riconosciuta la possibilità di accedere al suicidio assistito, non vi abbiano più voluto farci ricorso. Gridare al suicidio è sempre, senza eccezioni, un’urgente richiesta di aiuto. Si spera sempre che un familiare manifesti dolore, che i parenti si stringano attorno, che tornino gli amici a trovarti. Quando questo accade, c’è di nuovo una vita da vivere, non hai più bisogno di quei sogni di morte. E invece si vuol rendere subito legge una procedura che aiuti a sbrigarsela presto, magari con un discorsetto su quanto sia liberatorio darsi la morte, un macchinario a spese dello stato che aiuti a somministrarsi l’iniezione letale – ed è la stessa condanna che ricevono i peggiori assassini d’oltreoceano – e tanti sorrisi e auguri di finire nel nulla. Quando intorno ti ritrovi solo persone così, con la stessa empatia di una calcolatrice, non vedi l’ora in effetti di andartene via. 

Daniele aveva accettato, all’inizio dell’iter, di sottoporsi alle cure palliative, ma non era servito: le cure sopiscono solo il dolore, non tolgono la sofferenza, e le due cose seguono strade diverse. 

Il dolore viene dalla nostra natura ferita, la sofferenza dall’interagire del nostro dolore con le persone che ci stanno vicino, con la società in cui viviamo immersi, coi valori che ci hanno insegnato, che abbiamo vissuto, per cui abbiamo lottato. Se la tua vita è solo in ciò che tu fai, se tu sei solo ciò che ti distingue dagli altri, come accettare 21 ore di letto ogni giorno? Non puoi dare la colpa a Dio, se non ci credi che esista. L’inevitabile rabbia alla fine si rivolge contro te stesso.

Io lo so che non finirò in un buio indistinto, ma lui questo non lo credeva. Io so che anche se fuggo non smetterò mai più di esistere, ma seguirò nell’eternità quel mio modo di essere che ho scelto quaggiù. Io lo so che la mia vita non vale perché riesco ancora a parlare, a scrivere articoli, perché rido o mi arrabbio, ma vale per il semplice fatto che occupo uno spazio e un tempo, che saranno per sempre diversi dopo che ci son stato. L’aver bisogno di accudimento non mi rende di un grammo meno uomo di prima.

La dipendenza fa parte della vita umana da sempre, non è il peccato originale o personale ad averla causata. Il peccato, se mai, ci ha fatto credere che non dovrebbe esser così, che non sia giusto sentirsi bisognosi di accudimento. La malattia, il limite, la disabilità sono un memorandum del nostro dipendere gli uni dagli altri. L’interdipendenza è ciò che ci costituisce, è il nostro destino come esseri umani. Siamo fatti per una vita di relazione, di servizio e sostegno reciproco.

Anche Dio ha bisogno di non essere solo: non ci sarebbe il Padre se non ci fosse anche il Figlio, né il Figlio senza il Padre, né esisterebbe lo Spirito Santo se non ricevesse esistenza da entrambi e non unisse entrambi in un unico abbraccio. Dio è dipendenza – ed è anche servizio. La sua onnipotenza è solo un aspetto del suo essere Dio, non è la sua vita; al suo potere infallibile ha rinunciato creandoci. Non potrà mai però rinunciare ad amarci perché, se non ama, svanisce. È l’amore a far sì che Egli esista. Dio è accoglienza e servizio: è questa la sua vita ed è questo che, vissuto da noi, ci rende divini. È bella l’immagine di un Dio così fragile, ed è propria dei cristiani soltanto.

L’immagine di Dio che portiamo dentro di noi non è la nostra ragione, ma la limitazione della nostra natura corporea: anche nel Paradiso terrestre avremmo avuto bisogno gli uni degli altri, ma lì il nostro limite sarebbe stato occasione di comunione e di amore, fonte di gioia nel servizio reciproco. Il peccato non ha creato alcun limite, lo ha invece reso oggetto di disprezzo e rifiuto. Siamo noi stessi i primi a non riconoscerci in un corpo malato, a non accettarci quando non siamo all’altezza delle situazioni che ci si presentano. Eppure è allora che assomigliamo a Dio.

Gesù neanche da Risorto ha rinunciato alle piaghe che gli uomini gli avevano procurato, perché solo così è simile a noi, uomo davvero, uno di noi veramente. È nella debolezza della nostra carne che Dio ha trovato ciò che più gli somiglia. Dio è colui che amando si lascia ferire, è colui che amando condivide di noi le fragilità: Gesù comincia la sua missione mettendosi in fila tra i peccatori davanti a Giovanni Battista e la conclude inchiodato a una croce, facendosi amico di un delinquente condannato alla morte insieme con lui. Non è nella nostra cultura né nelle nostre personali forze spirituali che possiamo incontrare il volto di Dio che ci guarda accogliente; è nel nostro limite corporeo e spirituale che, come in un tesoro nascosto, ci imbattiamo nel solo Dio vero, Dio di misericordia e nostra sola speranza.

Ci vuole la fede per capire la sofferenza, ma la fede non è un dono per pochi: è parte essenziale, è fornitura di base del pacchetto “essere umano”; è però spesso ignorata, poco esercitata, raramente sviluppata e nutrita. Viviamo di fede: nei genitori, nella scienza e, salvo pochi occidentali delusi, anche in un dio. Ci vuole molta fede in certi frangenti e per questo è necessario pregare. Chi non prega è solo un illuso guidato da un’idiota, sé stesso.

Ancor più prego però perché Dio mi liberi dagli amici più pii, da quelli per cui sei la palestra con cui farsi santi. Non esisti se non come oggetto di carità, solo quanto e fino a quando permetti che ti aiutino secondo i loro bisogni. Sei meno di loro, sei oggetto di cura; non si ricordano bambini bisognosi di tutto, né s’immaginano anziani, diventati di nuovo come bambini. 

Dio mi liberi anche da coloro per i quali sono fonte di ispirazione perché continuo a vivere accettando i nuovi miei limiti. Pensano sia umiliante la malattia, quando a umiliarmi ci pensano loro. Ti umilia che ti dipingano come un eroe perché, “normalmente”, non si dovrebbe accettare di vivere la vita che vivi. Non credono che, se non è fragile, la vita non può dirsi umana, e tantomeno divina. Loro sì che mi sono di peso.

Dio mi liberi infine da chi mi pensa già santo per il solo fatto di provare dolore, perché porterei – secondo loro – il peso dei peccati del mondo. Una menomazione non è colpa quanto non sia premio o benedizione: è solo un segno che non siamo divini, almeno per ora. 

Daniele è morto per mancanza di senso, perché ai suoi occhi era stato occultato, da falsi amici e dal mondo in cui aveva vissuto, il fatto che nulla mancasse anche allora alla sua umanità e alla sua dignità.

Daniele Pieroni è morto ucciso dall’indifferenza di un mondo che respinge ogni limite, che disprezza ogni vita che non serva al delirio di onnipotenza di pochi. Si è tolto la vita perché circondato da lupi feroci, che chiedevano in sacrificio il suo sangue per continuare a illudersi di dominare la morte. Daniele è morto illudendosi che la libertà coincida col desiderare di non esser mai nato.

Io non so se saprò fare meglio di lui. Quando dai a qualcuno una possibilità di sollievo o di apparente risoluzione, nei momenti più bui la vorrai provare, che sia giusta o sbagliata; sarebbe troppo doloroso resistere. La crudeltà maggiore è proprio l’offrire quella possibilità illusoria. 

Il nostro mondo è crudele. Non ti offre uno scopo, non ti offre amicizia e sostegno. Ti offre una siringa perché tu tolga il disturbo che dai, osando vivere quando a nulla più servi. Chi ti aiuta a morire vuole in fondo che muoiano quelle domande che susciti in loro.

L’eutanasia è una menzogna, l’ultima tentazione per chi è già tanto provato nelle sue giornate più nere. Se avrò forza sufficiente, intendo restare con la mia malattia una domanda continua sul valore che effettivamente diamo alla vita di un essere umano; vorrei riuscire a testimoniare quanto sia preziosa la fragilità, quanto possa unire tra loro famiglie e nazioni, e quanto grande sia l’amore di un Dio che si è fatto malato per stare con noi. 

Che il Signore mi aiuti, che gli amici mi restino accanto, che il mondo non mi inganni con il suo “amore” che vuole solo che io non ci sia. 

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