Ambiente

La credibilità degli Usa minata dalla guerra commerciale

Tutto muterà molto velocemente e, questa volta, a riprova dell’interconnessione ormai irreversibile del mondo, muterà in tutto il globo terracqueo. La ragione risiede nel fatto che le aggressioni compiute da Donald Trump contro coloro che sono stati alleati di lunga durata degli Usa incoraggeranno le nazioni a formare blocchi e a istituire o rafforzare reti commerciali che isoleranno sempre più gli Usa nell’arena mondiale.

La sconcertante vicenda dei «dazi commerciali» non è che un sintomo febbrile di una malattia del sistema culturale del capitalismo mondiale che sarà penosa e devastante. Le tariffe indicate dal presidente sono il risultato di una semplice divisione del surplus commerciale di un Paese con gli Stati Uniti per le sue esportazioni totali. E la Cina ha risposto da par suo, accettando la sfida con l’elevazione di contro-dazi di pari entità… E qui veniamo al punto decisivo: inizia una guerra commerciale che ha alla base un ritorno all’imperialismo nordamericano classico. Il metodo è sorprendente e non tiene conto dell’ammontare dei servizi alle imprese che agiscono potentemente sulla total factory productivity, e che sono a favore degli Stati Uniti. In definitiva, questo approccio statistico nega la nozione stessa di vantaggio comparato, che è alla base delle stesse teorie liberiste che dovrebbero essere il fondamento del mainstream dominante.

Elementare Watson… ma non lo sa più nessuno, o nessuno lo dice più.

La guerra commerciale tariffaria è sicuramente uno strumento con cui gli Usa credono di invertire la tendenza ormai irresistibile del declino nordamericano. Ma tutto ciò altro non fa che compromettere la credibilità degli Usa. In fondo essi sono gli unici garanti della rete di alleanze che hanno sorretto tanto l’ordine quanto il disordine. Le altre potenze, da Tokyo a Pechino a Riyad a New Delhi e naturalmente anche a Bruxelles e a Strasburgo, dove vive e opera la burocrazia celeste dell’Ue, seguono con apprensione – e non sarebbe la prima volta nella storia mondiale – le erratiche mosse Usa. Esse, del resto, accelerano le tendenze multipolari contrapposte agli Usa, secondo quella relazione controintuitiva in cui risiede il grande segreto e l’aspetto più affascinante dello studio delle relazioni internazionali. Pensate al «Nixon Shock» del 1971: la denuncia unilaterale della convertibilità del dollaro si accompagnò all’imposizione dei dazi sì temporanei, ma pur sempre generalizzati del 10% che volevano indurre tutte le potenze e gli Stati mondiali a un rapido accomodamento monetario favorevole agli Usa. Ma proprio quel colpo di coda, quella forzatura, diede slancio e provocò di fatto il processo che avrebbe poi condotto l’Europa a dotarsi dell’euro, prima con il serpente monetario, poi con lo Sme. In fondo anche il riarmo di Reagan, negli anni Ottanta del Novecento, era una sorta di imprecisata risposta a una dinamica multipolare.

Sarebbe seguito il 2003, dopo le Torri Gemelle, con la guerra «per scelta» di George W. Bush: il disegno fu quello di controllare e tenersi stretta l’arteria energetica fossile, così da prevenire di nuovo che il processo di unificazione europeo potesse avvenire contro gli Usa. Ma tutto ciò provocò risultati inattesi, a cominciare, anni dopo, dal disastroso ritorno dall’Iraq, dove si innescò una crisi che dura ancora oggi. Ritiro di cui abbiamo visto una nuova rappresentazione recentemente in Afghanistan, sino a favorire l’influenza della Cina nel Golfo Persico e in Africa in forme irreversibili. Tutto ciò altro non è che il frutto del declino relativo Usa: esso pesa in forme e modi diversi sulle diverse aree e potenze del potere mondiale, con la crisi dell’ordine mondiale che si manifesta in forme cangianti e diversissime nel pianeta. E del resto l’Ue si muove, non si può dir di no: Ursula von der Leyen impugna l’arma militare e chiama a raccolta a Davos la Ue. E il fantastico António Costa solleva la bandiera dell’Europa: «centro di attrazione tanto delle potenze “emergenti”, quanto della Gran Bretagna e del Giappone». E proclama l’Ue «aperta agli affari» e «pronta a dialogare con la Cina e l’India…».


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