Infortunarsi per un colpo di tacco smarcante: tutto il senso calcistico di Dybala. E ora chi ci regalerà meraviglia?
Da romanisti abbiamo maturato una certa familiarità con le categorie del male e del peggio. E con il rapido degradare dall’una all’altra. Domenica Paulo Dybala si è infortunato: male. Giovedì mattina ha deciso di operarsi, la sua stagione è finita: peggio. L’ultimo cedimento – la lesione del tendine semitendinoso sinistro (un nome talmente bizzarro che pare inventato apposta per farlo rompere a lui) – suona come una melodia macabra, un requiem per la Joya, la premessa di un addio. In linea teorica, Dybala avrebbe ancora un anno di contratto con la Roma. In pratica il prossimo sarà l’ultimo, a meno di un improbabile rinnovo estivo o l’ipotesi – pure quella poco realistica – che il giocatore accetti di spalmare su più stagioni la cifra che gli spetta fino a giugno 2026 (e sono tanti soldi). Quindi non sarebbe così strano se la Roma riuscisse a disfarsi di lui questa estate: ci era già andata molto vicina lo scorso agosto. Da un punto di vista superficialmente razionale, avrebbe un senso. Dybala è un fuoriclasse, ma ha 31 anni. Dybala guadagna troppo, Dybala è fragile, si infortuna spesso e si usura tendenzialmente in primavera o in tarda primavera, nella fase decisiva dei campionati e delle coppe. Dybala è un lusso che la Roma non può più permettersi, col bilancio che piange in eterno. Con Dybala o senza Dybala, negli ultimi anni la Roma è arrivata comunque settima o giù di lì, non ha vinto titoli (grazie, signor Taylor).
Sono tutte minchiate. Ci arrivo tra poco, se i lettori perdonano il preambolo autobiografico: grazie alla compassione di chi ci lavora, sul Fatto Football Club mi è stata già data la possibilità di raccontare la transizione da tifoso “borghese” a malato psichiatrico della Sud e dei settori ospiti, evadendo qualsiasi regola del buonsenso e del giornalismo; la scrittura in prima persona, la confessione di comportamenti contrari all’etica professionale e alle leggi di alcuni Stati, il racconto assolutamente personale (seppur condiviso con milioni di individui) di momenti di gioia dissennata e dolore lancinante. Il passaggio dai Distinti alla Curva è stata una delle scoperte più consistenti della mia vita: ho guadagnato luoghi del cuore e liturgie irrinunciabili, una decina di chili e alcune delle amicizie più limpide e profonde che mai avrei immaginato potessero stringersi dopo i trent’anni. In cambio, ho dovuto accettare una sola rinuncia paradossale: la partita. Vedere, comprendere e apprezzare il calcio, quando gioca la Roma, non è più possibile, né desiderabile. È diventato altro: un’esperienza sociale, affettiva; amore, condivisione e persino fatica fisica. In curva sei troppo lontano dal punto in cui si svolge il gioco e tendenzialmente troppo offuscato per capire o voler capire cosa stia succedendo.
Ma ci sono rari, rarissimi momenti in cui quella nebbia si dirada. Ecco Paulo Dybala. Un difensore della Roma svirgola il rilancio, lo alza a campanile, la sfera atterra pesante come una palla medica oltre la metà campo; lui è marcato, fa perno sul corpo del marcatore avversario, indirizza il dorso del piede verso quella cometa di cuoio e la immobilizza con un tocco di velluto. Lo stadio fa “ooooh” con un sospiro collettivo. Sobbalzi e ti giri incredulo verso la persona che hai vicino, gli chiedi conferma: “L’ha fatto davvero?”. Ecco ancora Dybala, col suo corpo normale e fragile, che si infila in mezzo a due avversari come camminasse su uno specchio d’acqua, vede uno spazio dove prima non c’era e dopo non ci sarà più. Dybala che si inarca minuto ed esplode una meraviglia mancina, ti chiedi dove trovi la forza per calciare così. Dybala che aspetti col tiro a giro sul secondo palo, e invece va d’inganno, una fantasia controintuitiva: punta sotto le gambe del difensore e buca il portiere sul palo vicino. Non sono sempre giocate fondamentali, a volte è bellezza estemporanea, gesti bianchi frustrati da un errore o un intervento altrui. Ma da quando ho rinunciato a vedere la partita, Dybala è l’unica ragione che mi riporta al campo. Il resto è piatto, attorno a lui si accende una luce. Forse può valere anche per tifosi meno radicali: mi sembra che il calcio somigli alla società e stia diventando robotico, schematico, un prodotto di consumo noioso, spesso ingiusto, prevedibile come un algoritmo. Dybala è l’incanto. Un valore che non si conta su gol, assist, punti o trofei. Alla Roma sono poco frequenti, si gode d’altro.
Domenica Dybala è entrato in campo per pochi minuti, non ne ho visto quasi nessuno. La Roma aveva appena sbloccato la partita, per il sollievo mi sono incamminato verso la bolgia dantesca dei bagni della Curva Sud dello Stadio Olimpico, quando sono riemerso lui stava piangendo in panchina. Ho paura di non vederlo più giocare con la maglia della Roma e in un certo senso il rimpianto di non averlo potuto salutare, spero con tutto il cuore che non sia così. Si è infortunato con un colpo di tacco smarcante. Ti voglio bene, Paulo Dybala.
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