Società

Il treno della memoria, Paolo Paticchio: «Portiamo i ragazzi dentro la storia e insieme a fare un cammino dentro di sé»

Il suo primo viaggio risale al 2005. Era un diciottenne italiano che attraversava i cancelli di Auschwitz per la prima volta. Paolo Paticchio lo racconta così. «Era stato pensato da un’organizzazione piemontese e, in teoria, doveva coinvolgere solo ragazzi piemontesi, ma parteciparono anche in delegazione 50 ragazzi della provincia di Lecce e tra questi c’ero anche io». Il futuro fondatore e presidente dell’associazione nazionale Treno della Memoria non immaginava quanto quel viaggio gli avrebbe cambiato la vita. Nei vent’anni successivi, grazie al Treno della Memoria, ha guidato gruppi di giovani attraverso il medesimo percorso fra Berlino, Cracovia e il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau.

Con il giornalista Lorenzo Tosa ha scritto per De Agostini Il treno della Memoria. In viaggio per diventare i testimoni di domani. «Questo libro nasce dai tanti Treni della Memoria che hanno attraversato l’Europa sino a oggi e vuole essere una chiamata a non dimenticare, ma anzi a vigilare, da “testimoni dei testimoni”, sull’eredità di ciò che è stato e tramandarla».

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Come è stato quel primo viaggio?
«Nella sua primissima edizione era molto più rudimentale. Partivamo con il treno notturno da Lecce per Torino e da qui siamo andati a Cracovia. Ricordo abbastanza nitidamente il giorno della visita ad Auschwitz. Ricordo però che ero come schermato, come se avessi vissuto quella giornata senza vibrazioni. Poi, una volta salito sul pullman di rientro, è un po’ come se tutto quello che si era accumulato in quelle ore di visita iniziasse a riesplodere, un carico sia di informazioni sia emotivo travolgente. Con gli altri ragazzi abbiamo riflettuto sul fatto che sarebbe stato un peccato far finire lì quell’esperienza e abbiamo deciso di creare un’associazione prima locale e poi nazionale per rendere stabile questa esperienza».

C’è un sentimento comune in chi fa questo viaggio?
«In questi vent’anni abbiamo visto generazioni diverse avvicendarsi, ma non è cambiata nel tempo la frase che tutti i ragazzi e le ragazze dicono una volta fatta l’esperienza della visita: “Abbiamo toccato la storia con mano”. Fa capire come questa esperienza aiuti, sommata alla preparazione scolastica e alla formazione che ogni ragazzo o ragazza può fare, ad avere la consapevolezza che parliamo di una storia vera. C’è bisogno di una fisicità, di un cammino, di un percorso insieme che vada oltre a un approccio frontale, ma che prenda le vite di questi ragazzi e le metto dentro la storia. Oggi, ancora più di qualche anno fa è fondamentale questo tratto di percorso perché in un tempo virtuale, digitalizzato, schermato, abbiamo bisogno di capire che queste storie non sono frutto di storytelling, ma sono le vite travolte e segnate di milioni di persone nel nostro stesso Paese, nel nostro stesso continente. È un cammino nel passato, un viaggio che si fa nel tempo e nello spazio, ma è anche un grande viaggio che uno intraprende dentro di sé. La parte interessante è che viene fatto in maniera collettiva con la possibilità di condividere, discutere, confrontarsi».

Questo è l’ottantesimo anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, uno degli ultimi con testimoni diretti ancora in vita. Questo fa diventare ancora più importante il viaggio?
«Sì, sommare percorso di studi e viaggi serve a dare una consapevolezza in questa alleanza educativa tra scuole e associazioni, ma c’è un enorme ma col quale ci dobbiamo confrontare tutti quanti e che è proprio quello che inizieranno ad esserci le prime generazioni che non hanno la fortuna che abbiamo avuto noi di poter ascoltare questa esperienza dalla voce viva, dall’incrocio degli sguardi con chi l’ha dovuta subire. Non c’è niente che faccia capire che cosa è significato essere deportati, strappati alla propria quotidianità, vivere quell’esperienza di detenzione forzata, di sfruttamento, di umiliazione come le parole dei testimoni. Per questo l’edizione di quest’anno abbiamo deciso di chiamarla “Testimoni dei testimoni” perché siamo chiamati a capire se siamo in grado di raccogliere il testimone dei testimoni. Già immaginare la morte di 6 milioni di persone è una cosa troppo grande, non riesci a vedere 12 milioni di sguardi o di occhi».


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