Il Teatro della Cometa riapre a Roma grazie a Maria Grazia Chiuri
Persone, incontri, corpi, lei appartiene a una generazione che ha coi corpi rapporti ambivalenti.
«Appartengo a una generazione abituata a non incontrare i corpi altrui e a essere molto distaccata anche dal proprio corpo, ma più si va avanti, più ci stiamo confrontando, così mi sembra, con la fatica di questo allontanamento e credo che sempre più ci sarà bisogno di posti che facciano incontrare i corpi. La Cometa è uno di questi».
Ma che si fa a teatro?
«Storicamente il teatro è il posto dove sperimentare la realtà della propria condizione o la realtà della propria identità di genere, e può esserlo ancora. Speriamo di avere spettacoli e una programmazione che aprano questo posto anche alla rappresentazione di nuove realtà».
Fabio Tudisco, lei arriva in questo teatro come macchinista, nel 1986.
«Sì, ci sono capitato per caso, in palcoscenico, come macchinista. Varie vicende poi mi hanno portato a laurearmi e sono rimasto come architetto, consulente del gestore».
Qual è il suo rapporto con Mimì Pecci Blunt?
«Non l’ho conosciuta. Ho conosciuto la figlia, Viviana, che ha ereditato fabbricato e teatro. Attraverso Viviana ho cominciato a percepire un po’ chi era Mimì, e negli anni passati qui dentro avevamo pensato che fosse un peccato non dedicarle una delle vetrine del foyer. Così, con Viviana ho cominciato una ricerca nell’archivio di Mimì per tirare fuori qualcosa che riguardasse la costruzione e la realizzazione del teatro. I gestori di allora hanno bocciato l’iniziativa, mentre la nuova proprietà proprio sull’archivio ha basato il rinnovo di questo teatro per restituirlo all’immagine e alla funzione che aveva ai tempi di Mimì, e cioè un centro di cultura internazionale».
Che idea si è fatto di Mimì Pecci Blunt in tutti questi anni?
«Una grande donna, di grandissima cultura, con obiettivi chiari che ha perseguito uno per uno compreso il suo matrimonio con Cecilio, che era un altro appassionato d’arte. Il loro vero legame era la passione per l’arte. Marito e moglie hanno perseguito per tutta la vita passione per l’arte».
Che cosa fa un architetto a teatro?
«L’approccio progettuale corretto all’interno di una sala di pubblico spettacolo è cercare di dare la possibilità alle cose di accadere in tutte le forme possibili senza per questo venir meno ad alcune funzioni fondamentali come l’accoglienza del pubblico, per esempio. Io, in questa operazione, sono partito in vantaggio perché ho vissuto il teatro sotto tante forme, macchinista, direttore tecnico, e ho visto e imparato tutto quello che può succedere dentro una sala teatrale, quindi ho cercato di tenere conto di tutte le possibilità di una sala teatrale perché possa accogliere chiunque con le sue manifestazioni artistiche».
Quando chiedo cosa significano le sei finestre che dal palcoscenico si spalancano sul monte del Campidoglio, su Roma – il teatro di tradizione è fatto di buio e di silenzio, le finestre sono una scelta innovativa, chiosa Tudisco –, le risposte, prima incerte e dissonanti, scivolano – come le macchine su via del Teatro di Marcello – verso la realtà che chi ha pensato questo teatro sapeva che Roma è generosa nell’accogliere chi recita, chi guarda e chi passa, nella sua eternità.
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