Il potere salvifico del «grounding», la tecnica che aiuta a ritrovare la terra sotto i piedi
In un mondo sempre più veloce e digitalizzato, ci capita spesso di sentirci «scollegati»: dalla natura, dal nostro corpo, da ciò che conta davvero. La mente corre, il corpo insegue, e il presente sfuma tra pensieri, notifiche e stimoli continui. È qui che entra in gioco il grounding, o «radicamento»: una pratica semplice ma potentissima, che ci invita a ristabilire il contatto con la terra — letteralmente e simbolicamente. Camminare a piedi nudi sull’erba, sulla sabbia, sulla roccia… non è solo un gesto liberatorio, ma un vero e proprio atto di riequilibrio fisico ed emotivo. Il grounding, sostenuto anche da ricerche scientifiche, aiuta a ridurre l’infiammazione, migliorare il sonno, calmare l’ansia e riportarci a una dimensione più naturale e armonica.
Prima di ogni suo spettacolo, Walter Di Francesco, il mentalista più esclusivo d’Italia, pratica questa tecnica per qualche minuto: non per vezzo o per gioco, ma per ritrovare presenza e concentrazione. Lo abbiamo intervistato per comprendere meglio in cosa consiste nella pratica e che effetti può avere sullo stato psicofisico.
È vero che prima di uno show, lei si sfila le scarpe e si «connette» con la terra? Che cosa succede in quei 60 secondi di backstage?
«Sì, prima di salire su un palco importante, se posso, cerco un punto tranquillo, magari un giardino nascosto, una terrazza con un filo d’erba. Mi tolgo le scarpe e appoggio i piedi nudi a terra. È il mio modo per connettermi, per sentirmi reale, vivo, presente. In quel momento rallento il respiro, chiudo gli occhi e ascolto il corpo. Non è magia, è biochimica: sento la tensione scendere, la mente si fa lucida.
Alcuni studi parlano di una possibile trasmissione di elettroni liberi dalla terra al corpo umano, con effetti antinfiammatori e regolatori sul sistema nervoso. Io non so quanto sia tutto scientificamente provato, ma so quello che sento: un senso di centratura che nessuna app mi ha mai dato. È lì che inizia il vero spettacolo. Per me è soprattutto un’induzione psicofisiologica: tolgo la “scarpa del personaggio” e indosso quella dell’uomo che sta per creare meraviglia. Quel contatto con la terra è il mio interruttore: mi riporta all’essenza, prima ancora che allo spettacolo. Prima del pubblico, prima dell’applauso. Quando smetto di essere “il mentalista dei VIP” e torno semplicemente a essere Walter».
Il grounding affascina molti, ma suscita anche scetticismo: c’è chi lo definisce solo un placebo. Come risponde a queste critiche da mentalista che lo pratica regolarmente?
«Personalmente, non ho mai avuto paura del dubbio. Anzi, lo considero una forma di intelligenza. Quando qualcuno mi dice: “Ma davvero stare a piedi nudi sulla terra può avere un effetto fisiologico?”, io non mi offendo. Rispondo con sincerità: “Non so se per te funzionerà, ma so cosa accade a me”. Negli anni, prima di spettacoli importanti, ho misurato la mia frequenza cardiaca, il livello di tensione muscolare, la qualità del respiro. Dopo cinque minuti di grounding, cambia tutto. Il corpo si rilassa, la mente si fa più limpida. Non serve credere nei cristalli o nei chakra: basta avere il coraggio di fermarsi, ascoltare e togliersi le scarpe.
Durante un evento a Hong Kong, prima di entrare in scena davanti a un migliaio di persone, ero nervoso: il fuso orario, l’attesa, la pressione. Ho chiesto cinque minuti da solo. C’era un piccolo giardino zen dietro al backstage. Mi sono tolto le scarpe, ho appoggiato i piedi sulla ghiaia e ho respirato. Quel gesto semplice ha cambiato la mia energia. E la serata è andata come doveva: intensa, ipnotica, perfetta.
So che la scienza è ancora divisa sull’earthing. E va bene così. Io stesso non lo vivo come una verità assoluta, ma come un rituale personale che mi centra. Il mentalismo ha molto in comune con il grounding: funziona solo se sei presente. E io ho imparato che, per essere presente con gli altri, prima devo esserlo con me stesso».
Le va di raccontarci l’episodio più memorabile in cui il grounding ha cambiato l’esito di una serata VIP?
«Ricordo perfettamente quella sera nel deserto del Wadi Rum, in Giordania. Un evento spettacolare organizzato tra le dune, con oltre cinquecento imprenditori italiani. Lì, tra il silenzio e la sabbia rossa, mi sarei dovuto esibire al tramonto, in un allestimento scenico costruito letteralmente in mezzo al nulla. A un’ora dallo spettacolo, però, la mia attrezzatura non era ancora arrivata: la jeep che la trasportava era in ritardo. Un imprevisto nella logistica, e io sentivo il tempo stringere. Avrei potuto cedere al panico. Invece ho fatto l’unica cosa che sapevo avrebbe funzionato: mi sono tolto le scarpe, ho affondato i piedi nella sabbia ancora calda del giorno e ho iniziato a respirare, lentamente. Ho lasciato che il deserto mi contenesse, come una sala d’attesa primordiale. Dopo cinque minuti, la mente si era già sbloccata. Dopo dieci, avevo trasformato l’emergenza in opportunità: meno tecnologia, più presenza, più contatto umano.
Quando è arrivato il momento, ho camminato tra gli ospiti, uno a uno, creando suggestioni a pochi centimetri dai loro occhi. Il buio del deserto, il vento caldo che sollevava la sabbia, le stelle sopra di noi: tutto sembrava sincronizzato con i miei gesti. Non avevo bisogno di effetti speciali. Solo la mia voce, le mani, e quell’energia silenziosa che si crea quando le persone smettono di parlare… e iniziano ad ascoltare. A fine serata, uno degli ospiti mi ha stretto la mano e mi ha sussurrato: “Non so cosa hai fatto, ma per un attimo ho dimenticato dove fossi. Sembrava che il tempo si fosse fermato”. Ecco cosa fa il grounding per me: non cambia il mondo… cambia il modo in cui io lo affronto».
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