Il Diritto di Famiglia ha cinquant’anni
Una definizione
Il Diritto del nostro Paese così definisce la cellula sociale denominata “Famiglia”: “La famiglia è una comunità che si basa su vincoli di sesso, sangue ed affetto. Essa costituisce il luogo in cui si realizza la solidarietà tra i suoi componenti, in cui trovano soddisfacimento bisogni morali e materiali, in cui crescono le nuove generazioni alle quali trasmettere cultura, valori morali e beni materiali. Nel diritto vigente la nozione di famiglia consente di individuare una pluralità di modelli familiari socialmente tipizzati e giuridicamente tutelati.”.
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La Costituzione riconosce i diritti della Famiglia come società naturale fondata sul matrimonio (Articolo 29) e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo[leggi “umani”, Ndr.], anche nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (Articolo 30). Ciò significa che la Famiglia prevista dalla Costituzione deve essere «formalizzata» nell’Atto solenne del matrimonio, con il quale gli sposi si vincolano ai reciproci impegni che l’Ordinamento domestico provvede a regolare negli effetti giuridici conseguenti al legame coniugale.
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La Bibbia (Antico Testamento) nel Terzo dei Libri Sapienziali, quello detto del Quolet, ci ricorda (versetti 3,1-11) che: “Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.”. E sono parole di verità, applicabili anche per quanto è successo (e succede) nel nostro vivere quotidiano, regolato dalla Legge.
Infatti, se guardiamo al versante dei Diritti (in particolare a quelli delle donne e della Famiglia) vediamo che da noi, in Italia: c’è stato un tempo, non troppo antico, in cui la donna era solo “la regina della casa” (copyright Eduardo De Filippo, “Natale in Casa Cupiello”,1931) e il suo unico destino era quello di generare figli (possibilmente maschi) perché la Patria li mandasse in guerra a farsi ammazzare in quantità industriale (leggi Prima e Seconda guerra mondiale) essendo (la donna), in tutto e per tutto, “proprietà” esclusiva del maschio, soggetta ai suoi ordini (che si potrebbero definire anche capricci, se avessimo voglia di metterla sul faceto).
Per lungo tempo, a dettare Legge all’interno della Famiglia (a scapito della donna, si capisce – perché essere ritenuto inferiore, anche intellettualmente – era il “Codice Maritale” fascista del 1942, il cui Articolo 144 così recitava: “Il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno fissare la propria dimora.”. Et voilà, il gioco è fatto!
Poi venne un tempo “rivoluzionario” nel quale la donna – imbracciando o meno un’arma – lentamente imparò a e velocemente si determinò ad essere padrona del proprio destino, capendo, sulla propria pelle, (e spesso con il sacrificio della propria vita) il significato vero della parola libertà. Terminata che fu, però, quella breve “Stagione del nostro Amore” (citazione dal Film del 1966, diretto dal regista Florestano Vancini) la donna ri-piombò (o meglio fu fatta ri-piombare) nella strettoia senza uscita connotata bene dalla seguente espressione: “Dio, Patria e Famiglia”. Parole come catene rotte solo – poco più di una ventina di anni dopo – da una nuova “rivoluzione al femminile”.
Una “rivoluzione” che si può condensare in una sola espressione: “Io sono mia!”. Uno slogan. Ma si sa che gli slogan sono fatti di parole e le parole, anche se aiutano, a capire non fanno nessuna rivoluzione. Quella di cui sopra fu, infatti, una “rivoluzione incompiuta” che però lascerà diversi segni ancora oggi indelebili ad indicare che il tempo per “l’altra metà del cielo” – anche se molto lentamente – stava cambiando (e non biblicamente) sostituendo al ”tempo della servitù” il “tempo dei diritti”.
“Le donne – recita un antico Proverbio cinese – sostengono l’altra metà del cielo”, espressione poi modificata dal Presidente cinese Mao, in: “Le donne sono l’altra metà del cielo”.
Infatti, dopo meno di dieci anni da quella prima “rivoluzione” tentata, né arrivò un’altra – frutto stavolta di una Legge – che finalmente avrebbe detto una parola chiara (anche se non definitiva) sulla questione dell’eguaglianza e della pari dignità sociale di fronte alla Legge di tutti i cittadini, di cui parlava (e su cui statuiva) l’Articolo 3 della Costituzione della Repubblica Italiana. Costituzione che – come la Storia ci ricorda – anche 21 donne (le nostre “Madri Costituenti”) ebbero il merito di discutere e scrivere, nei non troppo lontani anni del’900 che andavano dal 1946 al 1948.
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E quella unità d’intenti (se preferite quell’”idem sentire”) costituzionale di tutte le donne di quell’Assemblea Parlamentare, detta appunto “Costituente”, non era apparso all’orizzonte per caso poiché per quelle donne, poco contava il Partito poiché molto il loro agire politico era mosso dall’idea che fosse arrivato il momento (storico) della parità sociale e politica tra uomo e donna.
Legge n.151: “Riforma del Diritto di Famiglia”.
E quella unità d’intenti si ripropose esattamente 27 anni dopo la promulgazione della Costituzione quando il 12 Maggio del 1975 (a soli 12 mesi dalla vittoria del Referendum sul Divorzio) il Parlamento – con i soli voti contrari del MSI di Giorgio Almirante, il “fucilatore di Partigiani”, cristiano, cattolico, ma anche bigamo – approvava la Legge n.151, recante: “Riforma del Diritto di Famiglia”.
Una Legge che – molto in sintesi – enunciava un Principio basico: “Con il matrimonio, il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri”. Principio costituzionale (Memento il richiamato Articolo 3, Cost.) che oggi appare ovvio, ma che al tempo (attenzione appena 50 anni fa!) non lo sembrava poi così tanto. (*)
Oggi – a cinquant’anni di distanza da quel giorno di Maggio (“era de Maggio / e no /, io non me ne scordo //”, recita una canzone napoletana scritta da Salvatore Di Giacomo nel 1885) – quella Legge – che alla “Repubblica democratica nata dalla Resistenza” ci erano voluti trent’anni (dal 25 Aprile del 1945) per approvare – ha cambiato molte cose nella Famiglia, riguardo i diritti e i doveri dei coniugi e anche riguardo i figli e la loro vita, tanto da cambiare anche i termini .lessicali di cui fare uso: “da patria potestà” sui figli si è, infatti, passati alla “potestà genitoriale”, dunque ad una responsabilità non solo educativa condivisa tra entrambi i genitori. E ancora quella Legge stabiliva (e stabilisce) che i figli nati fuori del matrimonio non sono più “illegittimi” ma godono – come i figli naturali e quelli adottivi – di fronte alla Legge e dentro la Famiglia, dello stesso trattamento, non solo giuridico, dei figli venuti al mondo all’interno del matrimonio.
Eppure – e non è solo una mia sensazione si direbbe “a pelle” – molta strada c’è ancora da fare se, ogni giorno, anche dentro le Famiglie la donna è ancora oggetto di discriminazione, violenza e morte (da Gennaio 2025 ad oggi i femminicidi sono stati 17 e il contatore di quegli assassinii al femminile non si ferma). Oggi, Maggio 2025, troppe forme familiari non sono ancora tutelate dalla Legge e il prezzo più alto lo pagano, ancora una volta, le donne e i bambini. La domanda che (mi) sorge spontanea è allora: “Quanto tempo si dovrà ancora attendere per una nuova “rivoluzione civile”, stavolta definitiva che dia un senso veramente concreto alla parola “diritti”, i diritti di tutti e per tutti?”.
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(*) Quando si parla, per le donne, di lentezza nell’acquisizione e nella pratica concreta dei diritti va ricordato che, fino all’entrata in vigore della Legge 9 Febbraio 1963, n. 66, le donne non avevano accesso alla carriera in Magistratura, non essendo considerate in grado – a causa di alcune situazioni diciamo così fisiologiche – di esercitare con raziocinio la facoltà del giudicare. E ancora occorre ricordare che, fino all’entrata in vigore della Costituzione (1° Gennaio 1948) e segnatamente dell’Articolo 51 della Carta, le donne non potevano accedere ai Concorsi nella Pubblica Amministrazione.
Le donne, inoltre, non potevano – per Legge – essere Presidi di Scuole o di Istituti d’Istruzione Media, né potevano esercitare l’insegnamento nelle Materie come Storia, Filosofia ed Economia nei Licei Classici, Scientifici e negli Istituti Tecnici, mentre l’insegnamento di quelle Materie era loro permesso alle Magistrali, evidentemente in considerazione dell’appartenenza al genere femminile delle allieve.
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