I Rovere: «I nostri genitori, alle nostra età, avevano già una casa, un lavoro e una famiglia. Noi, a 30 anni, abbiamo paura di non poterci permettere di scegliere»
Quando si compiono 30 anni, forse per la prima volta nella vita, si inizia a guardarsi indietro e a fare i primi bilanci su chi si è e su cosa si sta diventando. È il momento in cui capisci quali esperienze ti hanno portato a quel punto e quante persone, case, vite hai cambiato. È il primo giro di boa che mette paura e ansia, come sanno bene i Rovere, la indie band bolognese, che a questi temi ha dedicato il loro ultimo album, 11 case. Ne abbiamo parlato con uno di loro, Nelson, che ci ha spiegato come le case siano metafora di cambiamento, dello scorrere del tempo e di quello che ci lasciamo alle spalle crescendo. E, infatti, nella copertina del disco c’è una chiave spezzata, quella della casa di infanzia, dove a malincuore si è lasciato un pezzo di sé, una parte della propria famiglia, la sorella minore, «l’altra metà della mela», come dice Nelson, che non si è potuto veder crescere per poter proseguire con i propri sogni e ambizioni.
Come sa bene chi è stato costretto a trasferirsi fin da piccolo, le case puntellano la nostra esistenza. Quali sono quelle che hanno significato qualcosa per lei?
«La prima è quella dove sono stato a cavallo tra elementari e le medie perché in quella casa ho iniziato ad acquisire la prima indipendenza e a scoprire le cose che mi piacevano. La seconda è la casa di mio padre dove sono stato un paio d’anni ed è l’ultima volta che ho vissuto con un genitore: un posto dove ho imparato a conoscermi meglio, anche scontrandomi con aspetti negativi. La terza è la casa dove vivo adesso perché, per la prima volta, mi sono sentito sereno in un posto dopo essere sempre stato inquieto in quelle dove stavo prima».
Inquieto perché?
«Forse perché non ho mai legato l’idea di casa a un luogo fisico dove poter tornare, alle quattro mura che ti fanno sentire protetto e in cui puoi essere te stesso. Però, l’altro aspetto di questa inquietudine è che io mi sento a casa ovunque ci sono io e mi sento bene».
Nel vostro disco, gli altri sentimenti che sembrano prevalere sugli altri sono l’ansia e la disillusione che arrivano con i 30 anni.
«Le reazioni che ha avuto il nostro pubblico nei confronti di alcune canzoni i cui questi aspetti emergono in maniera prevalente, come Passanti, ci hanno fatto capire che si tratta di un’esperienza abbastanza generazionale. I 30enni di oggi hanno sogni, prospettive molto differenti rispetto ai 30enni di qualche anno fa».
A che punto sono i 30enni?
«I nostri genitori, alle nostra età, avevano già una casa, un lavoro e una famiglia. Io non sono a quel punto, i miei amici non sono a quel punto oppure se ci stanno arrivando, lo stanno facendo con molta fatica. Quello che ci accomuna tutti è la paura di non poterci permettere determinare scelte e il non sapere cosa succederà già solo domani».
Lei come ha vissuto questo cambiamento?
«Ci sono arrivato molto rilassato, senza particolari pensieri o ansie. Poi, ho compiuto gli anni e ha iniziato a rincorrermi l’idea che ormai non potevo più perdere tempo e che dovevo capire davvero cosa volevo dalla vita. Anche con gli altri della band, parlandone, abbiamo capito che tutti noi abbiamo fatto un bilancio dei sogni che avevamo, di quelli che abbiamo accantonato perché irrealizzabili, dei progetti a cui invece volevamo dedicarci, delle decisioni sbagliate e giuste prese. Tutti noi, quindi abbiamo fatto un po’ i conti con la realtà».
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