Ho la chiave de La vita è bella
Ha compiuto 90 anni oggi, circondato dall’affetto dei suoi familiari. Di questi, 78 ne ha spesi al servizio dell’arte del recupero e della valorizzazione di antichità. La memoria di Giovanfranco Vanneschi – meglio noto come Franco o “Pizzico” – è uno scrigno di preziosi aneddoti, tanto numerosi quanto le rarità che nei decenni son passate dal suo fondo. Uno degli ultimissimi, e certamente il più anziano, tra gli antiquari di piazza Grande. Iniziato al mestiere di restauratore nel ’47 in un’Arezzo devastata dalle bombe, Franco è il testimone oculare dei cambiamenti negli assetti del cuore pulsante della città, oggi dominato dalle attività di ristorazione. Il suo negozio, all’angolo tra le Logge e piaggia di San Martino, apre ormai di rado (“quando il mi’ figliolo me ce porta”), di solito in occasione della Fiera Antiquaria. “Lo sa di chi era questo fondo? Di Ivan Bruschi, il mio maestro. E qui è passato Benigni: gliel’ho data io la chiave per una delle scene più famose del film La Vita è bella”.
Quando ha iniziato a lavorare?
“Avevo 12 anni. Ho principiato in via Pescaja, da Bruno Bruschi, cugino di Ivan. Quest’ultimo, all’epoca, risiedeva ancora a Firenze. Facevo l’apprendista restauratore. Bruno si occupava di sistemare i mobili distrutti dalla guerra”.
Cosa ricorda di quell’Arezzo?
“Era una città povera e devastata. Si faceva la fame. Io prendevo 10 lire al mese per lavorare. C’erano le buche delle bombe ovunque in centro, palazzi crollati, macerie. Noi prendevamo le commissioni dei signori di Arezzo: Albergotti, Borghini Baldovinetti, Occhini. Recuperavamo mobilia in legno dalle loro proprietà. Io ci ho lavorato fino al 1959. Mi ricordo che per Pasqua e per Natale s’andava a dare la cera ai mobili”.
Germogli della vocazione antiquaria che sarebbe sorta di lì a breve?
“Non proprio. Diciamo che Firenze aveva una tradizione, Arezzo no. I fiorentini non li batte nessuno. Di antiquariato aretino, se così possiamo dire, ricordo la bottega di un rigattiere, Marcantoni: accomodava le vecchie lucerne. Per il resto in piazza Grande c’erano magazzini e vendevano la frutta”.
La svolta antiquaria la diede Ivan Bruschi?
“Eh sì, quando tornò da Firenze (nel ’58, nda). Arezzo fu anche brava ad intercettare i ricchi americani che arrivavano in Toscana per comprare una casa in campagna, a Lucignano, a Cortona. E cercavano oggetti antichi. Erano gli anni Sessanta: Firenze era avanti, ma anche ad Arezzo nacquero botteghe di antiquariato”.
E’ in questo contesto che nacque la Fiera Antiquaria?
“Sì e fu una svolta per Arezzo. E’ difficile da raccontare a un giovane cos’era la Fiera 50 anni fa. Dal ’70 al ’90 è stata una delle più grandi del mondo. Con merce incredibile. Ho visto girare cose: bronzi, quadri, maioliche, sculture, gioielli, argento, armi bianche, avorio. Ogni ben di dio. Anche reperti di Pompei. Sono gli anni in cui la nostra città si è arricchita improvvisamente, soprattutto grazie all’oro. Gli aretini fino al 2000, come si dice, hanno fatto soldi ‘a cappellate'”.
E poi?
“E poi quel boom è passato. I gusti cambiano, oggi va il modernariato. Una volta i ricchi riempivano le ville di antichità. Che poi vanno spolverate, tenute bene. Oggi i giovani preferiscono spazi liberi, ordinati. Che danno meno lavoro”.
Qual è la cosa più bella che le è passata per le mani?
“Maniglie antiche salvate dalla fonderia. Roba del ‘500 con draghi e delfini. Eccezionale. Dei veri capolavori di artigianato provenienti da antichi palazzi nobiliari di Firenze o Bologna”.
Un aneddoto legato al suo lavoro?
“Ma lo sa che ho la chiave de La vita è bella? Quando Roberto Benigni stava girando qui in piazza Grande sono stato io a fornirgli l’oggetto di scena”.
Quella usata in “Maria, butta la chiave?”
“Esatto. E’ questa qui (la mostra, nda). Una chiave grossa, pesante, come quelle di una volta. Questa chiave ha i secoli. Era probabilmente usata in campagna, per chiudere i portoni delle cascine. Girarono la scena proprio qui accanto e la chiave è questa qui”.
Un ricordo di Ivan Bruschi?
“Per me è stato una brava persona. Tirato, eh! Però bravo. Mi ha insegnato molto. Antiquario di razza e un genio nel dare vita alla Fiera. E’ morto senza una lira. Lo sa, no? Gli antiquari muoiono con miliardi di roba, ma senza soldi. E quando realizzi la vendita, col ricavato cerchi di arrivare finalmente a quel pezzo che prima non ti potevi permettere. E così via. Il nostro non è un mestiere, è una malattia. Qualcosa che ti entra dentro”.
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