Salute

Gli italiani pestati dai coloni israeliani: “Sono tornati, vogliono tutta la West Bank”. Feriti e case in fiamme

“Ieri notte i coloni sono tornati al villaggio di Ein al-Duyuk, erano sempre una decina, armati e bardati, come la notte in cui hanno attaccato noi. Solo che stavolta c’erano solo palestinesi, non c’erano internazionali e quindi è stato molto più brutale. Hanno distrutto le telecamere e gli schermi che avevamo installato, sono entrati in altre tre case del villaggio, non solo in quella in cui siamo stati attaccati noi. Ci sono stati 10 feriti di cui due gravi, ancora in ospedale, una è una donna. Il villaggio è terrorizzato, i padri non sanno come proteggere i figli, i bambini sono scioccati”, racconta Ruta, 32 anni, una volontaria campana appena tornata in Italia dalla Cisgiordania, sabato 13 dicembre, con un volo dalla Giordania. Ci sono foto e video di un palestinese non giovanissimo che perde sangue, poi caricato su un’ambulanza 4×4 della Mezzaluna rossa nel cuore della notte. Immagini di case bruciate sono passate anche su Rai News 24.

Ein al-Duyuk è una piccola comunità beduina a 2 chilometri a Nord ovest di Gerico, 10-12 famiglie, un centinaio di persone, con lo stesso nome di un villaggio più grande alle porte della città. È nella cosiddetta zona A sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese, i coloni non ci dovrebbero nemmeno entrare ma invece cercano di strappare la terra metro per metro ai palestinesi. I volontari internazionali vanno lì per fare interposizione, nella speranza che i loro passaporti contino ancora qualcosa, in questo caso nell’ambito della campagna Faz3 a guida palestinese con cui collabora anche Assopace Palestina: l’obiettivo è proteggere la raccolta delle olive. La comunità di Ein al-Duyuk, su un’altura considerata strategica, è quasi circondata da colonie e avamposti israeliani. L’unica strada che arriva da Gerico passa vicino agli insediamenti israeliani, in parte è in Area C (controllo israeliano) e in parte contesa. I coloni avevano messo un cancello, poi l’hanno dovuto aprire. Sono in corso i lavori per fare un’altra strada, ma chissà che gli occupanti non si prendano tutto prima.

Con altri due nostri connazionali e una ragazza canadese, nella notte tra il 29 e il 30 novembre, Ruta è stata vittima dell’attacco che per qualche giorno ha avuto l’attenzione dei media italiani. Un pestaggio intimidatorio piuttosto efficace. “Sono arrivati alle 4 di notte, hanno sfondato la porta, ci hanno colpiti con schiaffi, calci e pugni e ci hanno rubato tutto: soldi, passaporti e telefoni”, hanno raccontato. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani è stato costretto a dire qualche parola di circostanza su questi “giovani cooperanti che accompagnano le attività dei palestinesi, portano i bambini a scuola, aiutano gli agricoltori e i pastori, costituiscono una sorta di protezione civile per la popolazione locale”. Nessuna protesta ufficiale, naturalmente, come per gli attacchi alla Flotilla in acque internazionali.

C’era anche un giovane pugliese, si fa chiamare Tau, 28 anni, laureato in astrofisica, lavora in una ditta di bioedilizia: “Avevo vari ematomi, al naso e alle costole, ferite alle parti genitali da cui non sono completamente guarito. Ho fatto anche una seconda notte di ospedale a Ramallah”, racconta. Anche lui è rientrato ieri in Italia. “Ci hanno chiesto più di dove fossimo, quando dicevo ‘Italia’ facevano come un’espressione di disgusto, forse perché consapevoli della solidarietà italiana verso i palestinesi. Ripetevano ‘dont’t come back, don’t come back’, ‘non tornate’”, dice ancora Tau, anche lui “molto turbato” per il “nuovo attacco al villaggio”. Preferiscono che non siano pubblicate le loro generalità per esteso per non esporsi ulteriormente qui in Italia, rischiano già il divieto di entrare nei Territori per chissà quanti anni. Ruta ci è andata per la prima volta, Tau ci era già stato ad aprile.

Hanno sporto denuncia alla polizia palestinese e perfino alle autorità israeliane, che comunque hanno già chiuso il caso. “No evidence”, nessuna prova, dicono. Dall’ospedale di Gerico i palestinesi li hanno portati a Ramallah, lì hanno incontrato il console aggiunto Damiano La Verde. “Voleva anche farci parlare con Tajani, ma non di politica, ci ha detto. Ma allora di cosa dobbiamo parlare? Abbiamo rifiutato. Il console diceva che eravano in pericolo e si preoccupava soprattutto di farci ripartire al più presto”, racconta Ruta. È esattamente la preoccupazione del governo israeliano, che non vuole ficcanaso stranieri mentre incoraggia la violenta avanzata dei coloni. I tre italiani non avevano più i loro passaporti, il consolato li ha muniti di un documento provvisorio per il rimpatrio: “Volevano farlo per cinque giorni, poi sono arrivati a quindici ma solo perché io dovevo fare dei controlli in ospedale”, dice Tau. All’aeroporto di Amman sono andati in autobus, nemmeno una macchina del consolato. Ora preparano denunce anche in Italia: hanno subito reati di lesioni e rapina all’estero per motivi chiaramente politici. Il portavoce del ministro Tajani come è suo costume non ci ha risposto.

“Eravamo appena arrivati – racconta Ruta – Già la sera prima avevo avuto il primo incontro con i coloni. Erano cinque, tre sono entrati in una casa in costruzione e hanno cominciato a sfondare, gli altri due erano fuori e noi li riprendevamo con il telefonino. Ci puntavano in faccia torcioni accecanti. Poi la notte seguente sono venuti da noi”. Dice ancora Tau: “Ci sono stati attacchi anche al villaggio principale di Ein al-Duyuk, mentre più a nord nel villaggio di Ras al-Ein al-Auja, nella valle meridionale del Giordano, ci sono sette attivisti fissi di Ucp, Unarmed Civilian Protection, che fanno presenza solidale come noi”.

E ancora: “I coloni lavorano in tandem con i militari e la polizia: attaccano il villaggio e i militari lo circondano con le macchine per evitare la fuga delle persone. Poi una volta che i coloni hanno fatto le loro barbarie, entrano e arrestano tutti. L’ho visto ad aprile a Jinba, vicino a Masafer Yatta (Cisgiordania meridionale, ndr) e a Bardala, nella Jordan Valley, a Nord. Diversi feriti, serre distrutte, distrutti i tubi della rete idrica. Un tempo funzionava come deterrente la presenza di persone con passaporti internazionali, se filmavi i coloni riuscivi a farli allontanare. Da un anno non è più così, i militari arrestano gli attivisti, li deportano e li bannano da due a dieci anni. Il nostro – sottolinea Tau – non è stato l’unico attacco, ma spesso avvengono in Area C e non vengono denunciati perché lì gli attivisti non potrebbero nemmeno starci”.

La campagna Faz3 – ricorda – “si occupa della raccolta delle olive perché c’è una legge israeliana per cui la terra se non ci vai per tre anni passa allo Stato di Israele. Serviva proprio a consentire ai palestinesi di tornare in quelle terre dove non potevano più entrare per gli attacchi dei coloni. Ma questo è l’anno in cui ci sono stati più attacchi negli uliveti, più sradicamenti di alberi, circa 6.200 alberi distrutti tra quelli piantati adesso e quelli secolari o millenari. Siamo andati anche in posti più pericolosi, ma sono arrivati sparando granate assordanti e siamo stati costretti ad andare via. Magari non serve più come deterrente, la nostra presenza. Ma almeno i palestinesi possono dormire una notte di più se c’è uno di noi a fare la guardia”.

L’articolo Gli italiani pestati dai coloni israeliani: “Sono tornati, vogliono tutta la West Bank”. Feriti e case in fiamme proviene da Il Fatto Quotidiano.


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