Società

Francesca Vecchioni: «Quando ho fatto coming out, sembrava che gli omosessuali non esistessero. Oggi sogno una scuola che insegni l’amore, non la paura della differenza»

Come è andata in piazza?

«Ero lì con le mie figlie, i loro compagni di classe, amici e genitori. Era importante per noi esserci, ma anche dimostrare che le piazze sono così, sono fatte di persone come noi. Qualche giorno fa, in televisione, abbiamo visto solo le immagini di devastazione a Milano: i media hanno quasi lasciato da parte ciò che era successo prima, cioè una manifestazione completamente pacifica. Questa cosa ha condizionato milioni di persone che, guardando il telegiornale, hanno pensato che fosse successo solo quello e nient’altro».

Per deformazione professionale, credo sia molto più attenta di altri alle storture dei media nel raccontare fatti, eventi e persone.

«Guardi, mi ha ricordato per certi versi il mio primo Pride a Roma, nel 1994. Non solo era il primo a cui partecipavo, ma anche il primo mai organizzato in Italia. E ciò che si è visto in televisione non era affatto rappresentativo delle varie anime di quel Pride: all’epoca, ero felice che se ne parlasse, ma c’erano solo lustrini e paillettes. L’orgoglio è quello, ma non solo».

Secondo lei, quali sono le ragioni di questa tendenza?

«Ce ne sono diverse e molte sono legate a quello che genera più notizia, fa più clickbait. Ma se continuiamo a raccontare ciò che accade seguendo solo questa logica, continueremo a raccontare una società non rappresentativa. Faccio un esempio molto chiaro: pensiamo al modo in cui si parla di disabilità. Le persone disabili o sono fragili, continuamente infatilizzate, o sono quelle che compiono grandi imprese sportive, dal grande spirito di resilienza. E, questo, quando si decide di dedicare loro spazio: solo 1,1% dei contenuti presenti sui media è dedicato a questo argomento, quando in Italia il 25% della popolazione ha una forma di disabilità. Ed è proprio per questo che, con i nostri Media Awards, vogliamo premiare chi vuole e riesce a svincolarsi da questo modus operandi».

Quest’anno nella categoria “Persona dell’anno” avete scelto di nominare Francesca Albanese e Rula Jebreal che, spesso, sono state oggetto di campagne diffamatorie per le loro posizioni a favore del popolo palestinese.

«Per alcuni, i loro contenuti potranno essere anche polarizzanti, ma noi le abbiamo scelte per il loro coraggio, per la capacità di riuscire a parlare di temi complessi e, nonostante questo, arrivare a tantissime persone. Questa nomination vuole essere anche un modo per rendere le loro parole più trasversali, facendole uscire da quella bolla in cui vengono già ampiamente condivise e commentate».

Il loro impegno ha contribuito ad accendere i riflettori sulla tragedia che si sta consumando a Gaza. Ed è quello che emerge anche dalla vostra ricerca: il racconto di un fatto crea maggiore consapevolezza nel pubblico.

«Il 58% degli italiani si dichiara più consapevole rispetto a certi temi (come la violenza di genere, i diritti LGBTQI+) rispetto a dieci anni fa. E questo cambiamento è avvenuto perché un evento di cronaca, un film, una serie o un programma tv hanno contribuito a creare dibattito pubblico, a spingere alla riflessione. E un dato da tener ben presente è anche come il 40% degli intervistati ritenga che l’informazione, soprattutto da parte dei media tradizionali, avvenga in maniera scorretta. E anche questo aspetto spinge le persone a riflettere, a interrogarsi su quel fatto o evento di cronaca».


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