Flop del referendum, colpa degli elettori o della politica? L’analisi | isNews
Le riflessioni post-voto di due under25: Alessandro Ciccone per i sì, Sergio Verdile per i no
di Giuliano Vacca
ISERNIA. Il giorno dopo il referendum dalle due maggiori coalizioni ci saremmo aspettati delle considerazioni. Il centrosinistra avrebbe dovuto ammettere di aver inseguito il sindacato senza parlare di fatto delle questioni centrali del lavoro: la formazione continua, l’esodo dei giovani all’estero, l’impatto dell’intelligenza artificiale, i salari troppo bassi, il boom di pensionamenti che ci saranno nel 2030 e che di fatto affliggeranno i giovani di oggi.
Il centrodestra dal canto suo, pur registrando la vittoria dell’astensione, avrebbe dovuto annunciare l’apertura di un grande tavolo di riflessione in grado di coinvolgere tutte le parti sociali nel rispetto dei 13 milioni di italiani che hanno ritenuto di dover esprimere il proprio voto. Tutto questo però non è accaduto. E invece Maurizio Landini, segretario nazionale della Cgil, ha quasi gioito perché un terzo degli italiani è andato a votare, non è un po’ poco? Su X poi dirigenti del Pd hanno sbeffeggiato gli astenuti, chiamandoli – ben che andava – ignoranti. E poi, Ignazio La Russa, presidente del Senato, che ha parlato di “campagna d’odio che ha schifato gli elettori”: come se non sapessimo che il centrodestra non ha fatto altro che postare meme contro il centrosinistra e foto di spiagge dichiarando quindi una preferenza chiara per la cabina balneare e non per quella elettorale.
Le contraddizioni in termini sono molte: come si potevano mettere in una stessa consultazione referendaria sia quesiti sui diritti dei lavoratori sia quesiti sulla cittadinanza? Spiegare la seconda era sicuramente più facile e, paradossalmente, poteva spingere al voto più i contrari alla riduzione del numero di anni minimo per diventare cittadini italiani (come infatti è stato). Il quesito sulla cittadinanza quindi era il vero pretesto: un esito positivo sarebbe stato considerato come una vittoria per il centrosinistra soprattutto per quella parte che sperava anche negli altri 4 sì. C’era quindi l’intenzione di fidelizzare l’elettorato senza tenere conto di come il campo largo non fosse compatto – chiediamoci se Italia Viva la pensasse come i 5 Stelle e se esponenti di punta del Pd come Pina Picierno e Lorenzo Guerini fossero sulla stessa scia della segretaria Elly Schlein.
Il Pd chiedeva l’eliminazione del Jobs Act che proprio quel partito aveva promosso 10 anni fa. Tempi diversi, leader diversi ma la domanda sorge spontanea: il Pd oggi vuole fare opposizione a Giorgia Meloni o al Governo di Matteo Renzi del 2015? Certo, se fosse così la Meloni potrebbe dormire sonno tranquilli (almeno fino all’ascesa da molti auspicata di Silvia Salis ndr). Questa non può essere politica: “È il modo per farvi diventare dei tifosi’, ha detto questa mattina Carlo Calenda. E non è un caso che pochi giovani siano andati a votare e che tra questi ci sia chi abbia ignorato le indicazioni del proprio partito di riferimento. A due giovani studenti universitari, da tempo schierati, abbiamo chiesto un parere: uno ha votato 5 sì e l’altro 5 no.
Alessandro Ciccone, 19 anni, studente di Lettere presso l’Università di Bologna, ritiene “vergognoso che tutti i partiti di governo abbiano invitato i cittadini a non votare: credo che questa fosse strategia politica che puntava a sabotare questo referendum così da non arrivare al quorum”.
Alessandro, sì al quesito sulla cittadinanza. Perché?
L’integrazione è ormai un fatto storico acclarato. Bisogna appunto ridurre gli anni necessari affinché la cittadinanza possa essere acquisita, perché gli immigrati devono essere un valore aggiunto del nostro Paese. Passare da 10 a 5 anni rappresenterebbe per loro un’occasione, non una svendita, come molti hanno detto: significa riconoscere una direzione storica, sociale, culturale che mira appunto ad una maggiore integrazione soprattutto dell’immigrato e ad un sincretismo culturale. In tal senso porto il modello di Mimmo Lucano, sindaco di Riace, che ha dimostrato come effettivamente l’integrazione fosse possibile, potesse essere una risorsa vantaggioso non solo per chi accoglie.
E sul lavoro invece?
Mi sono espresso favorevolmente su tutti e quattro i quesiti. Si puntava a garantire una migliore tutela ai lavoratori rispetto a quella attuale, nel rispetto di diritti che ritengo inviolabili. In caso di licenziamenti illegittimi, infatti, è giusto che vengano date motivazioni che siano valide e non aleatorie, come spesso accade. Anche nelle piccole imprese, fino a 15 dipendenti, ci devono essere delle indennità adeguate per i licenziamenti. Credo che il tetto di 6 mesi costituisca più un limite perché ogni licenziamento sia valutato in base alle contingenze, al contesto. Per quanto riguarda invece i contratti a termine, votare sì serviva ad evitare di avvantaggiare solamente l’imprenditore, il padrone che può assumere a suo piacimento per svariate volte i dipendenti senza poi giustificare il perché di quell’assunzione, ad esempio, a tempo determinato. Il rischio è quello di far precipitare sostanzialmente il lavoratore in una spirale di precarietà infinita. In ultimo luogo, sì anche per la responsabilità solidale, perché in questo modo committente appaltatore e subappaltatore potranno lavorare in maniera appunto più coscienziosa, rendendo i cantieri più sicuri e monitorando meglio i lavori invece di scaricare scaricarsi le responsabilità a vicenda: data anche, appunto, la drammaticità di alcuni eventi che accadono sui luoghi di lavoro.
Sergio Verdile, 22 anni, studente di Ingegneria Gestionale a Reggio Emilia, è andato contro Fratelli d’Italia, partito di cui è dirigente, è ha votato esprimendo un no a tutti i quesiti.
Sergio ti aspettavi questo esito?
Il risultato del referendum è stato chiaro: ha segnato una vittoria per il centrodestra, che aveva invitato all’astensione. L’alta astensione ha infatti dimostrato che una larga parte degli italiani non condivideva le proposte messe al voto. In particolare, il quesito numero 5, quello sulla cittadinanza, ha rivelato una spaccatura anche all’interno della sinistra. Nonostante il referendum sia stato promosso soprattutto da quest’area politica, i risultati (60% favorevoli contro 40% contrari) indicano che, nel segreto dell’urna, molti elettori di sinistra non hanno sostenuto la proposta. Questo evidenzia un distacco crescente tra le posizioni ideologiche della sinistra e il sentire comune. Credo anche che, alla luce di questi dati, è necessario rivedere le modalità con cui si organizzano i referendum. Non è sostenibile continuare a investire risorse pubbliche senza garanzie di reale partecipazione. Con gli strumenti digitali oggi disponibili, come lo SPID, si potrebbe alzare la soglia per la raccolta firme e mantenere il quorum, per evitare che una minoranza decida su temi rilevanti per tutto il Paese.
Nel merito invece?
Per me i quesiti sul lavoro rappresentano un ritorno al passato perché tentano di demolire riforme che hanno introdotto un minimo di flessibilità e di responsabilità in un mercato del lavoro che è ingessato. Anziché favorire l’occupazione e la competitività, questi referendum vogliono ripristinare vincoli, rigidità. Quindi difendere l’articolo 18 non crea posti di lavoro, ma li cancella. Mentre sul fronte della cittadinanza si vuole svuotare il concetto fondamentale di essere cittadini italiani. Accorciare i tempi per ottenerla significa non significa integrazione, significa resa. La cittadinanza non è un automatismo, ma un traguardo che richiede radicamento, rispetto delle regole, un’identità condivisa e integrazione appunto. Ho votato anche se non credevo in una stagione referendaria usata come surrogato della politica che abdica al confronto parlamentare e alla costruzione di un consenso sociale: è l’ennesima operazione ideologica promossa dalla sinistra per piegare il diritto e il lavoro ai propri schemi ideologici.
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