Fabio Geda: «Le case dell’attesa accolgono vicino all’ospedale le donne a fine gravidanza in Angola per contrastare morti inaccettabili per le complicanze del parto»
L’attesa, un tempo all’apparenza sospeso, non ha lo stesso valore a ogni latitudine. Attesa in portoghese si dice espera. E già in questa parola c’è il senso di una fiducia. Dopo il best seller Nel mare ci sono i coccodrilli, Fabio Geda torna in libreria con La casa dell’attesa, edito da Laterza, il racconto di un viaggio in Angola tra la capitale Luanda e il profondo sud, Chiulo, sugli altopiani al confine con la Namibia. E di un ospedale rurale dove il Cuamm porta avanti il progetto Casa dell’attesa, una struttura in cui le donne incinte trascorrono l’ultimo mese di gravidanza per garantire la propria sicurezza e quella dei loro figli. Fabio Geda mette nero su bianco storie di cooperazione e i destini delle donne e degli uomini angolani trasformati dall’incontro con l’organizzazione italiana. Nel libro emerge anche la bellezza spietata dell’Africa, le strade della capitale Luanda, abitata da oltre dieci milioni di persone e di giovani che attendono di vendere qualsiasi cosa, la bellezza di un ambiente naturale mozzafiato, abitato da popolazioni che lottano con la siccità e la malnutrizione.
Fabio Geda è arrivato a Treviso con Fondazione Zanetti ETS e Fondazione Imago Mundi per raccontare la sua esperienza in Angola.
Cosa succede nella Casa dell’attesa e perché è così importante per le donne di questa parte del mondo vivere l’ultimo mese in una situazione protetta?
«In una casa dell’attesa le donne attendono di partorire. È una strategia con cui si cerca di contrastare morti inaccettabili come quelle delle madri e dei figli per le complicanze di un parto. Il problema a cui le case dell’attesa offrono una risposta è la distanza tra i luoghi in cui le donne abitano e l’ospedale più vicino. A volte queste distanze sono enormi. L’Angola ha una densità abitativa bassissima, cosa che fa sì che in certe aree l’ospedale sia a due o tre ore di moto. Immaginate cosa significa dover fare due o tre ore di moto con un parto ostruito, o con una emorragia in corso. Quindi si invitano le donne a vivere accanto all’ospedale nel corso dell’ultimo mese di gravidanza».
Nel libro ci sono anche le strade della capitale Luanda, abitata da oltre dieci milioni di persone e di giovani che attendono di vendere qualsiasi cosa.
«Luanda è una città tentacolare. Ospita un terzo degli abitanti dell’Angola, che è una nazione grande quattro volte l’Italia, e quindi, com’è facile immaginare, una terra in cui si può guidare a lungo senza vedere nessuno. A Luanda, invece, il traffico lungo le arterie principali è già di per sé un’esperienza che satura i sensi. È una città complessa, piena di contraddizioni. Da un lato ci sono i grattacieli dei centri dirigenziali e dall’altro i musseques, i quartieri periferici più poveri. Ci sono molte voci, molti corpi, molta musica, molta vita. Ovunque si vedono i segni della prosperità che ha investito Luanda tra il 2004 e il 2014, quando i soldi del petrolio e dei diamanti l’hanno fatta diventare una delle città più care al mondo. Poi però è arrivata la crisi generata dalla caduta del prezzo del petrolio e ai segni della prosperità si sono aggiunti gli scheletri dei palazzi in costruzione, che ora emergono nel panorama urbano abbandonati da anni, come dita puntate sulle illusioni».
Chi è Agostinho Neto e che ruolo ha ancora oggi nella memoria collettiva della nazione?
«Agostinho Neto è stato il primo presidente dell’Angola, ed è considerato il padre della patria. A me, più che come politico, interessa soprattutto in quanto medico e in quanto poeta. Medico, perché siamo qui a parlare di salute. E poeta, perché il mio principale strumento di lavoro è la parola. Nel libro, poi, scoprirete in quali modi imprevedibili la vicenda umana di Agostinho Neto e legata all’Italia e soprattutto a una persona straordinaria come Joyce Lussu, protagonista irriducibile della resistenza italiana. La sua è una storia pazzesca. Di Neto ho cercato di raccontare soprattutto la passione con cui affrontava la vita, qualunque cosa si trovasse a fare, che fosse il medico o che cercasse di organizzare culturalmente una resistenza anticoloniale. Una passione che si ritrova anche nelle poesie che scriveva».
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