Salute

Draghi al Senato: “No a tagli della spesa sociale e sanitaria, per la difesa Ue serve debito comune. Nostra sicurezza messa in dubbio da politiche di Trump”


“Gli angusti spazi di bilancio non permetteranno ad alcuni Paesi significative espansioni del deficit, né sono pensabili contrazioni nella spesa sociale e sanitaria” per investire nella difesa. Sarebbe “non solo un errore politico, ma soprattutto la negazione di quella solidarietà che è parte dell’identità europea che vogliamo proteggere difendendoci dalla minaccia dell’autocrazia. Il ricorso al debito comune è l’unica strada”. Mario Draghi torna in Senato, in audizione per illustrare anche ai parlamentari italiani il suo Rapporto presentato a Bruxelles sulle sfide per il rilancio del Vecchio continente. Documento in cui stimava in 800 miliardi annui gli investimenti aggiuntivi necessari per recuperare competitività. La stessa cifra che ora Ursula von der Leyen vorrebbe fosse destinata nel prossimo quadriennio al riarmo dei singoli Stati.

Per l’ex premier e presidente Bce “la nostra sicurezza è oggi messa in dubbio dal cambiamento nella politica estera del nostro maggior alleato” – gli Usa – “rispetto alla Russia che, con l’invasione dell’Ucraina, ha dimostrato di essere una minaccia concreta per l’Unione Europea. L’Europa è oggi più sola nei fori internazionali, come è accaduto di recente alle Nazioni Unite, e si chiede chi difenderà i suoi confini in caso di aggressione esterna – e con quali mezzi”. Oggi quindi “sono posti in discussione” i valori fondanti dell’Ue, e cioè “pace, prosperità, solidarietà e, insieme all’alleato americano, sicurezza, sovranità e indipendenza”, garantiti per decenni ai cittadini dall’Unione Europea “insieme all’alleato americano”.

In questo quadro “la difesa comune dell’Europa” è “un passaggio obbligato per utilizzare al meglio le tecnologie che dovranno garantire la nostra sicurezza”. Ma, appunto, bisogna farlo attraverso debito comune, che invece è una parte minoritaria (150 miliardi) del piano di von der Leyen. E “coinvolgendo i privati” che sono pronti a finanziare questi investimenti”: un via libera, tra le righe, alla proposta di Giancarlo Giorgetti per mobilitare investimenti privati con una relativamente piccola garanzia pubblica. Draghi sottolinea che in ogni caso “mentre si pianificano nuove risorse occorrerebbe che l’attuale procurement europeo per la difesa – pari a circa 110 miliardi di euro nel 2023 – fosse concentrato su poche piattaforme evolute invece che su numerose piattaforme nazionali, nessuna delle quali veramente competitiva perché essenzialmente dedicata ai mercati domestici”. L’effetto del frazionamento “è deleterio” perché rende Bruxelles dipendente da Washington: “A fronte di investimenti complessivi comunque elevati, i Paesi europei alla fine acquistano gran parte delle piattaforme militari dagli Stati Uniti. Tra il 2020 e il 2024, gli Stati Uniti hanno fornito il 65% dell’importazione di sistemi di difesa degli Stati Europei aderenti alla Nato. Nello stesso periodo l’Italia ha importato circa il 30% dei suoi apparati di difesa dagli Stati Uniti”.

Occorre quindi, dice, “favorire le sinergie industriali europee concentrando gli sviluppi su piattaforme militari comuni (aerei, navi, mezzi terresti, satelliti) che consentano l’interoperabilità e riducano la dispersione e le attuali sovrapposizioni nelle produzioni degli Stati membri”, afferma. “Se l’Europa decidesse di creare la sua difesa e di aumentare i propri investimenti superando l’attuale frazionamento, invece di ricorrere in maniera così massiccia alle importazioni, essa ne avrebbe certamente un maggior ritorno industriale, nonché un rapporto più equilibrato con l’alleato atlantico anche sul fronte economico. Questa grande trasformazione è in realtà necessaria non solo per le complessità geopolitiche cui stiamo assistendo, ma anche per via della rapidissima evoluzione della tecnologia che ha stravolto il concetto di difesa e di guerra”. Nell’ottica di una difesa comune la prima mossa dovrebbe essere “definire una catena di comando di livello superiore che coordini eserciti eterogenei per lingua, metodi, armamenti e che sia in grado di distaccarsi dalle priorità nazionali operando come sistema della difesa continentale“.

Tornando a ritardi e difficoltà dell’industria continentale, Draghi ha individuato il nodo principale nel costo dell’energia: “Una seria politica di rilancio della competitività europea deve porsi come primo obiettivo la riduzione delle bollette, per imprese e famiglie”. Il problema “è ancora più marcato in Italia, dove i prezzi dell’elettricità all’ingrosso nel 2024 sono stati in media superiori dell’87% rispetto a quelli francesi, del 70% rispetto a quelli spagnoli, e del 38% rispetto a quelli tedeschi. Anche i prezzi del gas all’ingrosso in Italia sono stati mediamente più alti rispetto ai mercati europei”, afferma l’ex presidente della Bce. “Nei prezzi finali ai consumatori incide anche la tassazione, in Italia tra le più elevate di Europa. Nel primo semestre del 2024, l’Italia risultava il secondo Paese europeo con il più alto livello di imposizione e prelievi non recuperabili per i consumatori elettrici non domestici”.

Per Draghi “costi dell’energia così alti pongono le aziende – europee e italiane in particolare – in perenne svantaggio nei confronti dei concorrenti stranieri. È a rischio non solo la sopravvivenza di alcuni settori tradizionali dell’economia, ma anche lo sviluppo di nuove tecnologie ad elevata crescita. Si pensi ad esempio all’elevato consumo necessario per i data center“. Quanto all’Europa, “tra settembre e febbraio, il prezzo del gas naturale all’ingrosso è aumentato in media di oltre il 40%, con punte di oltre il 65%, per poi attestarsi a +15% nell’ultima settimana”, rileva Draghi. “Anche i prezzi dell’elettricità all’ingrosso sono aumentati in modo generalizzato nei diversi Paesi europei, e continuano a essere 2-3 volte più alti dei prezzi negli Stati Uniti”.

In più ora c’è la guerra commerciale alle porte. L’ex governatore dell’Eurotower ribadisce che l’eccesso di barriere interne al mercato unico equivale a “un dazio del 45% sui beni manifatturieri e del 110% sui servizi, ma ora la preoccupazione è per le tariffe annunciate da Donald Trump. “La nostra prosperità, già minacciata dalla bassa crescita per molti anni, si basava su un ordine delle relazioni internazionali e commerciali oggi sconvolto dalle politiche protezionistiche del nostro maggiore partner. I dazi, le tariffe e le altre politiche commerciali che sono state annunciate avranno un forte impatto sulle imprese italiane ed europee”.


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