Ambiente

Difesa Ue, incognite e opportunità

I passi da gigante di questi giorni nel coordinamento del progetto di Difesa europea erano impensabili un anno fa. Eppure non ci si può illudere su una reale imminente autonomia dell’Ue, perché: non si conoscono i tempi del progetto, né come reagiranno Usa e Russia, né che ne sarà della Nato, da questo poi dipende tutto, a cominciare dal gap da colmare, dai costi e dalla fattibilità. Negli ultimi dodici mesi il tema è stato toccato nel Rapporto consegnato da Enrico Letta al Consiglio europeo (aprile 2024), poi è stato approfondito in quello presentato da Mario Draghi alla Commissione (settembre), ed è stato studiato nel documento Europa compiuta? dell’Osservatorio delle Imprese della Sapienza (marzo 2024) con il contributo di Andrea Locatelli della Cattolica. Un anno fa tra i nodi da sciogliere della Difesa europea furono indicate: l’assenza di un’autorità apicale, l’insufficienza della spesa per investimenti militari, i vantaggi che i pochi paesi europei dotati di un’industria della difesa riservano a favore dei propri campioni nazionali, duplicazioni e sprechi per 130 miliardi.

Una forte pressione su governo e Commissione europea è arrivata anche dall’industria dell’auto, in contrazione più che in crisi economica per colpa di scelte comunitarie sbagliate sull’elettrico. In Italia nel 2024 (fonte Anfia) il grado di utilizzo della capacità produttiva di veicoli si è attestato intorno al 50% (47% per la sola Stellantis). Ne deriverebbero forti perdite, ma il taglio dei costi fissi (lavoro, grazie anche alla Cigs) ha consentito all’automotive di restare nell’area del profitto (elaborazione di dati Area Studi Mediobanca). Alcuni paesi hanno proposto che le fabbriche auto da chiudere vengano convertite per produrre sistemi di Difesa. L’idea presenta evidenti difficoltà.

Un processo di conversione –da civile a militare o in senso inverso – come tutti i processi di investimento ha bisogno di nuovo capitale, deve prevedere costi iniziali elevati e tempi lunghi perché si arrivi a una produzione effettiva. Questa riflessione è poi da tenere insieme a un’altra per alcuni aspetti addirittura più problematica. Qualsivoglia investimento industriale non può che basarsi su stime e valutazioni della domanda futura dei beni che si producono. In realtà in ambito militare, tali stime risultano estremamente difficili. Come si quantifica la domanda di dispositivi d’arma? Inoltre esistono esigenze diverse per i diversi tipi di dispositivi. Nel nostro caso specifico, non è neanche possibile basarsi sulla domanda passata, dato che siamo in una fase di accelerazione nella produzione. Invero, la situazione è decisamente più complessa di quanto possa apparire a prima vista. È noto che un eccesso di capacità produttiva di cantieristica navale militare realizzata a debito durante la prima guerra mondiale, raggiunta la pace subito dopo contribuì negli anni ’20 del Novecento a insolvenze e alla crisi bancaria del 1929.

Non ultima è poi la preoccupazione in merito alla frammentazione e alla moltiplicazione dei dispositivi d’arma in Europa. Eventuali processi di conversione di strutture industriali esistenti si baserebbero verosimilmente su tecnologie e tipi di dispositivi d’arma del campione nazionale. Un’ulteriore preoccupazione è che questi processi aumenterebbero la frammentazione esistente a livello europeo poiché è ragionevole e prevedibile che il campione nazionale dell’industria militare fornisca la tecnologia per portare avanti tali percorsi. Se ciò avvenisse, la disunione europea in ambito industriale andrebbe ad amplificarsi con inevitabili ricadute dal punto di vista politico. Insomma, l’idea pressante di una conversione di vecchi impianti del settore automotive presenta più dubbi che opportunità.

* Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano


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