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Come sta il lavoro in Italia (e dove sta andando)

Cartina sul tasso do occupazione in Europa
Cartina sul tasso do occupazione in Europa

(Articolo sul lavoro in Italia da VicenzaPiù Viva n. 298, sul web per gli abbonati).

Luci e ombre del mondo del lavoro nel nostro Paese. Aumenta il numero delle persone con un lavoro, ma gli squilibri e le diseguaglianze restano forti e il livello dei salari è in stagnazione…

Come ogni anno, anche nel 2025 il Primo Maggio è stata l’occasione per riflettere sullo stato di salute del mondo del lavoro in Italia. Da un punto di vista meramente quantitativo, il bicchiere sembra essere mezzo pieno: i dati ISTAT più recenti (febbraio 2025) mostrano infatti un tasso di disoccupazione sceso al 5,9%, il valore più basso dal 2007; ancora più rilevante è il tasso di occupazione (calcolato sulla popolazione attiva, cioè gli italiani che hanno dai 15 ai 64 anni), che è pari al 63%, un record dall’inizio delle serie storiche ISTAT: non ci sono mai stati così tanti italiani al lavoro come oggi.
Eppure, come spesso accade, anche dietro ai numeri più lusinghieri si possono nascondere delle ombre. Il tasso di inattività, che misura la quota di persone che non hanno un lavoro né lo cercano, resta infatti elevato: circa il 33%, un italiano su tre, un dato di molto superiore alla media europea (20% nel 2024 secondo Eurostat).
Peraltro, un aspetto cruciale riguarda la definizione stessa di “occupato” adottata nelle statistiche ufficiali. Secondo la metodologia dell’ISTAT, viene considerato occupato chi, nella settimana di riferimento dell’indagine, ha svolto almeno un’ora di lavoro retribuito o ha contribuito all’attività di un’impresa familiare non retribuita.
Sono inclusi anche coloro che, pur essendo temporaneamente inattivi (per ferie, malattia, maternità o altre cause), conservano il rapporto di lavoro. Questo criterio è in vigore in Italia da molti anni (2004), da quando cioè l’ISTAT si è uniformato agli standard internazionali dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO). Si tratta quindi di una metodologia che da un lato considera allo stesso modo i lavoratori full time e quelli che lavorano poche ore a settimana, dall’altro consente di fare paragoni sia con le statistiche italiane degli scorsi decenni, sia con quelle degli altri paesi che adottano gli stessi standard. Questo è un elemento importante da tenere presente per interpretare correttamente i numeri.

Disoccupati e inattivi
Disoccupati e inattivi

Lavori a tempo, lavori full time

Il lavoro, come si diceva, non è uguale per tutti: ci sono molti modi diversi di essere “lavoratori”. La crescita degli occupati, in questo senso, va letta interpretando anche le dinamiche che riguardano le diverse tipologie di rapporto di lavoro. È vero, ad esempio, che una parte consistente delle nuove posizioni lavorative è rappresentata da contratti a tempo determinato. Ma questo fenomeno non va necessariamente letto in chiave negativa: in gran parte, infatti, questi contratti vanno a sostituire rapporti simili giunti a scadenza, all’interno di un mercato che ormai da anni fa ampio ricorso a forme di lavoro flessibili. In altre parole, lungo uno stesso arco temporale, possono essere conteggiati diversi rapporti di lavoro a tempo determinato che però fanno riferimento a un unico lavoratore.
Ciò che conta, inoltre, è che ormai da tempo si registra anche una crescita dei contratti a tempo indeterminato. In molti casi, peraltro, si tratta di vere e proprie “stabilizzazioni”: rapporti di lavoro inizialmente a termine che vengono trasformati in impieghi stabili. Questo passaggio, spesso sottovalutato nel dibattito pubblico, rappresenta un segnale importante di fiducia da parte delle imprese e di consolidamento dell’occupazione.
Nel complesso, quindi, il lavoro dipendente a tempo pieno mostra segnali di rafforzamento; ma lo stesso vale — seppur con forme diverse e ritmi più moderati — per alcune tipologie di occupazione autonoma, specie nel mondo dei servizi professionali (il famoso mondo delle partite IVA). Tutti questi indicatori segnalano una ripresa più robusta e strutturale rispetto a quanto avveniva in passato, quando le fasi di espansione occupazionale erano trainate quasi esclusivamente dall’aumento del lavoro precario.

Occupazione
Occupazione

Tutto questo, è bene ribadirlo, va riferito alla dinamica nazionale complessiva, ma non vale allo stesso modo per tutti. Il mercato del lavoro italiano continua ad essere caratterizzato da profonde disuguaglianze: di genere, di età e territoriali. Tra i giovani, le donne e i residenti nel Sud continua ad esserci, mediamente, un tasso di partecipazione inferiore al mondo del lavoro.

Giovani e donne i più svantaggiati

L’aumento dell’occupazione registrato dai dati ufficiali avviene, ormai ininterrottamente, dal 2021, cioè dalla fine della prima fase della pandemia. Tuttavia, questa tendenza positiva convive con un’altra dinamica, più silenziosa ma altrettanto rilevante: l’aumento della popolazione inattiva, cioè di coloro che non lavorano e nemmeno cercano un impiego. In particolare, crescono le persone che hanno abbandonato ogni tentativo di entrare nel mercato del lavoro, spesso perché scoraggiate da esperienze negative o dalla convinzione di non avere opportunità concrete.
Questo fenomeno colpisce soprattutto i giovani e le donne. L’Italia continua ad avere una delle più alte percentuali di NEET (acronimo di “Not in Education, Employment or Training”) in Europa: nel 2023, oltre il 19% dei giovani tra i 15 e i 29 anni risultava inattivo, quasi il doppio della media UE (10,5%). Allo stesso tempo, il tasso di inattività femminile rimane tra i più alti del continente, con forti disparità regionali: al Sud, oltre il 60% delle donne in età lavorativa è fuori dal mercato del lavoro.
Il risultato è un mercato molto segmentato, in cui le opportunità non sono equamente distribuite e che finisce per scoraggiare le persone con determinate caratteristiche sociali. Oltretutto, l’inattività si concentra in aree geografiche che soffrono anche di una minore densità occupazionale e di minori opportunità formative, e questo finisce per amplificare lo divario Nord-Sud che caratterizza da sempre il nostro Paese.

La vera anomalia italiana

Un altro elemento critico (forse il più critico) del mercato del lavoro italiano riguarda il livello dei salari. Negli ultimi trent’anni, le retribuzioni medie in Italia sono pressoché stagnanti, o comunque sono cresciute molto meno che in altri paesi europei. Secondo un’analisi della Banca d’Italia, tra il 1990 e il 2020 il salario medio reale in Italia è aumentato di appena lo 0,3%, mentre in Germania è cresciuto di oltre il 30% e in Francia di quasi il 25%. A questa stagnazione si somma (età 20-64 anni) sono meno rispetto alla media europea (fonte: Eurostat) un’ulteriore peculiarità: l’Italia è uno dei pochissimi paesi dell’Unione Europea a non avere una forma di salario minimo legale. Attualmente, le leggi italiane affidano la regolazione delle retribuzioni ai contratti collettivi nazionali, che coprono una buona parte dei lavoratori, ma non tutti. Secondo stime recenti, oltre il 20% dei lavoratori dipendenti percepisce salari inferiori a 9 euro lordi l’ora – una soglia proposta da alcuni partiti di opposizione come riferimento per un eventuale salario minimo. Un progetto di legge nazionale per il salario minimo era allo studio al momento della caduta del Governo Draghi, mentre l’attuale esecutivo, guidato da Giorgia Meloni, ha esplicitamente escluso l’adozione di un simile provvedimento.
Nel frattempo, l’inflazione degli ultimi due anni ha eroso il potere d’acquisto delle famiglie, rendendo ancora più urgente una riflessione sulla sostenibilità dei livelli retributivi. Anche per questo, secondo diverse rilevazioni demoscopiche, la stragrande maggioranza degli italiani vedrebbe con favore l’introduzione di un salario minimo legale: una rilevazione di Tecné risalente a un anno fa (maggio 2024) vedeva una percentuale di favorevoli pari al 72%.

Il lavoro di domani

A complicare il quadro, va considerato che il mondo del lavoro è in una fase di piena trasformazione. L’emergere dell’intelligenza artificiale è solo l’ultimo di una serie di tendenze – la crescente diffusione dello smart working, la transizione ecologica e quella digitale – che impongono un ripensamento profondo delle competenze richieste e delle forme di organizzazione del lavoro. Molti dei lavori che vediamo oggi potrebbero cambiare radicalmente, o persino sparire, nel giro di pochi anni. Altri, del tutto nuovi, stanno già nascendo.

Questo vale per i settori più innovativi, ma anche per comparti più tradizionali, che dovranno adeguarsi ai nuovi paradigmi, e non è detto che l’esito sia sempre favorevole.
I numeri raccontano una realtà fatta di progressi importanti, ma anche di disuguaglianze persistenti e fragilità strutturali. Il mercato del lavoro italiano è oggi attraversato da spinte contraddittorie: da un lato la tenuta dell’occupazione, dall’altro salari stagnanti e ampie fasce di popolazione escluse o sottoutilizzate. Ma la fotografia attuale è solo un frammento di un film in continuo movimento. La direzione che prenderemo dipenderà dalle scelte di politica economica, dalla capacità del sistema produttivo di innovare e – non da ultimo – dalla possibilità per le persone di acquisire strumenti per affrontare un mondo del lavoro sempre più complesso. Nulla è scritto in anticipo, e molto resta da costruire.


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