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C’è una Groenlandia che si sente già americana, ma Trump non lo sa: le aspirazioni (e l’indipendenza) del calcio più freddo del mondo

Forse Donald Trump, che pure nello Studio Ovale possiede un pallone da “soccer”, non sa che la federazione groenlandese, il 13 maggio 2024, ha formalmente presentato la domanda per diventare il 42° membro della Concacaf, l’organismo calcistico dell’America Centro-Nord. Nell’isola più grande del mondo, 2.166.086 kmq di estensione e poco meno di 57mila abitanti, si sentono infatti appartenenti al continente americano, ma come certificato dalle ultime elezioni, rivendicano l’indipendenza e il rispetto della loro civiltà. Il calcio, come spesso accade, è l’indicatore socio-culturale di un paese: siamo “americans”, vogliamo affrontare le altre formazioni del continente al quale siamo geograficamente legati, ma intendiamo farlo da groenlandesi e non come cinquantunesimo stato a stelle e strisce. Inglobata al regno della Danimarca dal 1814 e fuori dall’Europa dopo il periodo 1973-1985 – l’esito di un referendum svoltosi nel 1982 provocò l’uscita dalla CEE -, la Groenlandia ama il football: cinquemila praticanti, quasi uno ogni dieci abitanti. “È lo sport più seguito – racconta Robert Peroni, un nostro connazionale che vive nell’isola verde dal 1980 -. Quando l’Italia vinse il titolo mondiale nel 2006, fecero un tifo sfrenato per noi. Usavano la parola “azzurri” per sostenerci. Adesso il campionato di tendenza è la Premier League. Manchester United e Manchester City sono i club più famosi. Quassù si gioca all’aperto d’estate, ma anche d’inverno, nelle giornate più miti, organizzano partite sul mare ghiacciato”.

Il campionato groenlandese esiste dal 1954. Dopo le eliminatorie, alle quali partecipano tutti i paesi dell’immensa isola “green e white”, si svolge la fase finale, con le vincenti della selezione regionale: la Grønlandsbanken Final 6. Il titolo si assegna in una settimana: si gioca ogni 24 ore. Il Boldklubben af 1967, di Nuuk, la capitale, è il club più blasonato: 14 campionati. L’Angutit Inersimasut GM – nome ufficiale del torneo –, è una festa: attira l’attenzione di tutta la popolazione ed è trasmesso in diretta tv. Le squadre sono composte da pescatori, cacciatori, commercianti, parrucchieri, maestri, impiegati, studenti. La manifestazione coinvolge l’intera comunità: si tifa a bordo campo, poi si mangia, si beve, si canta e si balla, tutti insieme. D’inverno, giocatori e famiglie si radunano nelle palestre, al chiuso, dove furoreggia il football a cinque. È un buon modo per tenersi in allenamento in vista del campionato estivo e aiuta a combattere la malinconia della lunga notte polare: il buio perenne e le temperature che possono scendere a -40 provocano un profondo disagio. “Il calcio ha un enorme valore sociale. Unisce le generazioni, è una buona forma di distrazione durante i mesi più duri e allena il fisico”, spiega Peroni, 80 anni, approdato quassù per un’escursione e folgorato dalla Groenlandia, attraversata in lungo e largo. Originario di Renon, provincia autonoma di Bolzano, dopo una traversata di 1550 km su una slitta, sbarcò a Tasiilaq, sulla costa orientale, dove scelse di vivere. La sua casa, acquistata per ospitare i giovani in difficoltà, è diventata nel corso del tempo un albergo: la “Red House”. Sull’ingresso vi è scritto: “Noi qui siamo a casa loro”. Peroni ha trascorso un periodo molto difficile durante la pandemia: l’interruzione dei voli aerei privò per diversi mesi la Groenlandia dei generi alimentari, importati dall’estero. Peroni, autore di tre libri scritti con Francesco Casolo per raccontare le problematiche del popolo inuit, ha istituito nel 2023 la fondazione The Red House Greenland. Nel suo hotel, con cinque stanze, si mangia italiano: la cuoca è originaria del Cadore.

I groenlandesi non vogliono finire sotto l’ombrello dello zio Sam: le dichiarazioni di Donald Trump hanno rinvigorito i sentimenti d’indipendenza. Nel calcio, la sfida è quella di ottenere il via libera dalla Concacaf per partecipare ai grandi tornei internazionali. Il clima non è l’unico ostacolo: c’era, fino a 15 anni fa, il problema delle strutture. I campi, in terra battuta, non erano idonei per svolgere l’attività ufficiale. Dopo una visita dell’ex presidente della Fifa, Sepp Blatter, furono costruiti alcuni impianti in sintetico, privi di spalti: il primo in assoluto a Qqaqartoq, nel 2009. Nel 2017, la compagnia BIG (Bjarke Ingels Group) depositò un progetto per la costruzione dell’Arktisk Stadion, capienza 2.000 spettatori, requisito fondamentale per consentire alla Groenlandia di avere una struttura che rispetti i parametri FIFA. L’impianto, dal costo preventivato di 65 milioni di euro, non è stato ancora realizzato per mancanza di fondi. L’unica competizione internazionale a cui la Groenlandia partecipa sono gli Island Games, torneo riservato alle maggiori isole del mondo.

La domanda di ammissione alla Concacaf potrebbe scuotere l’interesse di alcuni investitori, disposti a finanziare il progetto-stadio. “La richiesta è un passo significativo per le nostre ambizioni”, le parole del danese Morten Rutkjaer, ct della nazionale groenlandese. Ex difensore, 51 anni, in carica dal 2020, sta perlustrando la Danimarca alla ricerca di giocatori con origini inuit. Un esempio è il terzino Adam Ejler Hansen, 21 anni, di discendenza groenlandese attraverso i nonni. L’altro talento è il centravanti Nemo Thomsen. Nato a Ilulissat – la terza città groenlandese, famosa per gli iceberg di grandi dimensioni -, gioca nella terza divisione danese e si è messo in luce a 14 anni nei tornei regionali. Rutkjaer lo ha convocato in nazionale appena sedicenne.

Rory Smith, giornalista inglese, firma del New York Times e della sezione sportiva The Athletic, scrisse qualche anno fa un accurato reportage sul calcio in Groenlandia. Titolo: Soccer at the Edge of the World. “Trascorsi una settimana nel 2019, poco prima della pandemia. Un’esperienza straordinaria. Il calcio rappresenta in un’isola enorme, con le distanze che si misurano a migliaia di chilometri, uno strumento di comunicazione e di conoscenza tra le coste occidentali e orientali. Il livello tecnico mi sorprese. Il calcio viene praticato nelle scuole e l’approccio è molto serio. C’è un misto di orgoglio e di senso di appartenenza. La fase finale è davvero una grande festa collettiva”. Il popolo inuit lotta da sempre per la sua sopravvivenza. Peroni, intervistato da Repubblica nel 2017, affermò: “Gli è stata imposta la nostra civiltà e ora rischiano l’estinzione”. Ora rischiano di passare da un padrone all’altro: dalla Danimarca agli Stati Uniti. Il calcio è una delle carte da giocarsi al tavolo dell’indipendenza e della libertà.


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