Cultura

Brian Douglas Wilson, l’altra faccia del sogno americano

Credit: Richard King, CC BY 3.0, via Wikimedia Commons

C’è sempre stato un lato oscuro nelle canzoni, apparentemente luminose e spensierate, dei Beach Boys. Un lato indagatore, temerario, quasi spudorato, che non aveva timore di scrutare nel buio delle nostre emozioni più crudeli e nei sentimenti più selvaggi, per poi riportarli in superficie e trasformarli in materia viva, in accordi di luce e di vibrante malinconia. Quelle armonie vocali, da cartolina estiva, i cori angelici e le melodie da drive-in californiano erano solamente il rivestimento zuccheroso di un’anima inquieta e profondissima, fatta di tormento, di smarrimento, di inquietudine e di alienazione.

E in tutto questo c’era — e c’è — il cuore pulsante di Brian Douglas Wilson, mente visionaria, fragile e disperatamente umana, capace di trasfigurare le proprie ossessioni e paure in arte pura. Brian Wilson non ha mai avuto paura di inciampare nei propri abissi. Ha messo in musica le sue insicurezze, i suoi slanci di bellezza improvvisa, le sue vertigini e i suoi naufragi interiori. In un’epoca in cui il mondo voleva tutti perennemente sorridenti, tutti perennemente ottimisti, tutti perennemente produttivi e funzionali ai rituali alienanti di una società capitalista in pieno delirio di onnipotenza, Brian Wilson è stato una crepa luminosa nel muro perfetto del sogno americano.

“Pet Sounds” non è soltanto uno degli album più importanti della storia della musica pop e rock, ma è, soprattutto, una ribellione sonora intima, acida, sfavillante e tumultuosa; è un grido sottile mascherato da carezza, un disco che fa a pezzi la plastica di un’America gaudente e patinata per rivelare il suo cuore trepidante e ferito. Le orchestrazioni raffinatissime, i suoni inediti e le scelte melodiche fuori da ogni schema, raccontano la storia di un uomo che tenta, con tutto sé stesso, di restare a galla, mentre ogni cosa attorno a lui si dissolve, mentre l’estate eterna si trasforma nell’inverno gelido dell’anima.

Era l’epoca della musica acida, delle visioni psichedeliche e delle fughe verso mondi interiori più puri, più onirici, più introspettivi, e Brian Wilson scelse di visitarli, ovviamente, a modo suo. Non con chitarre lancinanti e con jam senza fine, ma con tappeti di archi, con theremin che sembravano sospiri di fantasmi e con linee vocali che sembravano appartenere ad un’altra dimensione, ad un altro mondo, ad un’altra vita. In fondo, è stato proprio questo il miracolo di Wilson: avere il coraggio di restare vulnerabile in un tempo di facciate, di personaggi, di eroi, di leggende, di miti e di maschere invulnerabili. Aver scelto la sensibilità come arma, l’incertezza come forma di resistenza, la malinconia come linguaggio universale. Perché “Pet Sounds” è il disco di chi si sente fuori posto nel proprio tempo, di chi avverte il peso della finzione sociale e di chi sogna, ancora, cieli sterminati e strade senza fine. È il canto, dolce e disperato, di chi, mentre tutti ballano sulla spiaggia, guarda il tramonto, sapendo che anche le onde, i colori e le immagini più belle, prima o poi, si dissolvono.

E forse è proprio in questo sguardo che risiede la sua eternità.


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