Cultura

Ariel Kalma, Jeremiah Chiu & Marta Sofia Honer

Due anni fa “Recordings From The Åland Islands” pose sotto i riflettori degli appassionati il tenue impressionismo di Jeremiah Chiu e Marta Sofia Honer: nei fragili quanto idilliaci quadretti coniati dal duo di musicisti di stanza a Los Angeles si manifestava tutto il rapimento, la profonda ispirazione suscitata da un contesto senza molti eguali, catturato tanto nei suoi aspetti più naturalistici quanto nella sua dimensione subliminale, suggestiva. Complice anche l’uscita per International Anthem (per la quale Chiu, in veste di grafico, aveva già realizzato diverse copertine) il disco ha viaggiato in lungo e in largo, catturando ottimi consensi. Non sorprende quindi come il nome dei due sia giunto alla corte di Ariel Kalma, sperimentatore e decano della ambient francese, che ha contattato la coppia per lavorare assieme a una sessione della serie Late Junction curata dalla Bbc. È proprio a partire da questo primo nucleo che il trio così formato comincia a lavorare su un progetto più esteso. “The Closest Thing To Silence”, finemente evocativo già dal titolo, è il risultato di tale collaborazione, una sinergia che trascende il singolo contributo ed elabora una preziosa sintesi tra le istanze dei tre musicisti, abili nel delineare un immaginario sonoro che si pone al crocevia tra contesti, epoche e modus operandi diversi.

Ariel Kalma ai fiati, Marta Sofia Honer alla viola, Jeremiah Chiu alla drum machine e al campionatore, tutti e tre a contribuire alle tessiture di synth: tanto basta affinché il taglio sonoro dell’album vanifichi ogni ricerca di coordinate precise, e si diriga verso una terra di nessuno in cui jazz, quartomondismo alla Jon Hassell (che Kalma ha elaborato autonomamente nello stesso periodo), ambient estatica e fughe berlinesi possono convivere senza colpo ferire. Sono i frutti di un proficuo scambio tra generazioni, di un accorto gioco di improvvisazione e collage che illude costantemente le aspettative, evoca spettri di immagini e situazioni per poi disperderli improvvisamente, negandone la realtà.
Non che il disco non presenti una sua concretezza, un’effettiva compiutezza di tratto, questa deriva però da sovrapposizioni timbriche in costante mutamento, ritagli di suono e immagini fulminee che vanno e vengono nell’arco di un battito. Dai piovosi meccanismi sintetici della title track, appena screziati da placidi accenti di sassofono, l’album fa presto a entrare nei mondi immaginari propri di un Kilchhofer (le foreste misteriose di “Dizzy Ditty”) o a virare verso immaginifiche superfici neoclassiche, in cui i contributi di Honer prevalgono con dolce assertività.

Altrove l’essenza creativa del gesto si esprime con la fiera inventiva del minimalismo classico (difficile non scorgere il fervore del migliore Terry Riley negli sdoppiamenti di sassofono di “Écoute au loin”), col trio che non esita a indirizzarla verso luminose aperture meditative (i loop dal carattere library di “Stay Centered”). È però nel riadattamento di una lontana registrazione per synth e drum machine di Kalma che l’album illustra al meglio la grande sinergia del terzetto: istintivo e deciso, l’estro del combo sa colmare in “Stack Attack” i vuoti lasciati dal tempo, irrobustire lo scheletro ritmico attraverso un brulicante lavorio di archi e una ricontestualizzazione collagista dell’immaginario 70’s di base.
A poco serve conoscere insomma quali siano i punti di partenza, quale l’approdo e tantomeno quali siano le intenzioni dietro a tale viaggio: nell’avvicinarsi al silenzio, nell’accostarsi alla negazione di tanto faticare, Ariel Kalma, Jeremiah Chiu e Maria Sofia Honer hanno ideato un mondo di miraggi, chimere tanto imprendibili quanto paradossalmente vivide. E chissà quanti altri inganni attendono adesso di essere raccontati.

29/03/2024




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