Anch’io ero pronto a partire per l’Egitto, diretto alla Marcia per Gaza
Mercoledì sera ero pronto anche io a partire per l’Egitto, diretto alla Marcia per Gaza. Zaino in spalla, basso profilo (inclusa una Lonely Planet per l’Egitto) e il minimo indispensabile per una missione dallo scopo chiaro: continuare a far parlare, a voce alta, di Gaza — soprattutto adesso, sulla scia del sequestro illegale della Madleen da parte di Israele. Un’azione simbolica, ma essenziale.
Ma cos’è, esattamente, la Marcia per Gaza? L’idea nasce da un gruppo di attivisti pro-Palestina sparsi in diverse parti del mondo. Obiettivo: raggiungere simbolicamente o realmente il valico di Rafah, “dal basso”, rompendo l’assedio. Una chiamata pubblicata sul web ha fatto da miccia: in pochi giorni l’attenzione è cresciuta in modo imprevisto. Nonostante la scarsissima copertura mediatica, l’organizzazione è riuscita a radunare delegazioni da vari paesi, fissare regole comuni, programmare date, e contare già qualche migliaio di potenziali partecipanti. In Egitto si è attivato un coordinamento — pur mantenuto sottotraccia, visti i delicati equilibri politici locali.
Anche io, dicevo, ero pronto. Vivo a meno di un’ora di volo dal Cairo, e volevo partecipare a un’iniziativa tanto difficile da realizzare quanto potente dal punto di vista simbolico. Nei paesi arabi spesso c’è diffidenza verso l’attivismo occidentale, ma in questo caso sembrava che la chiamata avesse mobilitato persone da ogni parte del mondo. A dare una forte spinta è stata l’immagine diventata virale del Sumud Convoy: quasi 200 tra auto e pullman partiti domenica dalla Tunisia per raggiungere il valico di Rafah passando per la Libia. Bandiere, volti di ogni età ed estrazione sociale, e viveri a bordo per i gazawi, stretti nella morsa di Israele.
A fare da promotore involontario, il ministro israeliano Gantz. Con il consueto “pragmatismo” del governo di Tel Aviv, ha prima chiesto all’Egitto di fermare la marcia degli “amici di Hamas”, poi ha minacciato di schierare l’Idf contro i manifestanti e contro il convoglio, se si fossero avvicinati a Gaza — che, nel frattempo, il suo esercito continua a radere al suolo con chirurgica determinazione.
Poi, ieri mattina, quando tutto sembra sul nastro di partenza, ecco il brusco risveglio: le autorità egiziane hanno iniziato a bloccare e rimpatriare chiunque atterrasse al Cairo con l’intento di unirsi alla Marcia. La sera prima, un gruppo di cento persone partite festanti dall’aeroporto di Schiphol (Amsterdam) si è trovato all’arrivo circondato, privato del passaporto e respinto nel giro di poche ore. Stessa sorte è toccata a italiani, greci, turchi, messicani e spagnoli.
Le autorità egiziane hanno giocato su due tavoli: da un lato, non hanno mai ufficialmente vietato la Marcia; dall’altro, l’hanno di fatto bloccata appellandosi alle leggi interne, che prevedono un ordinamento militare ultra-restrittivo. Vietate le manifestazioni non autorizzate. Vietato l’accesso al Sinai del Nord. Vietatissimo il transito di civili nella zona di Rafah. In sintesi, un “no” secco a tutte le richieste della Global March. Eppure, nel silenzio delle settimane precedenti, l’unico comunicato ufficiale — pubblicato giovedì sera dal ministero degli Esteri egiziano — ribadiva che “il valico di Rafah è aperto, e le delegazioni internazionali sono benvenute”. Ma, appunto, con un grande “ma”.
Ho visto le immagini dei fermi e dell’esercito all’aeroporto del Cairo mentre mi stavo dirigendo anch’io in aeroporto. Il silenzio-assenso si era ormai trasformato in un chiaro silenzio-rifiuto. A quel punto, partire avrebbe avuto senso solo per documentare fermi, arresti ed espulsioni.
Va detto che i segnali c’erano già: da giorni, su alcuni portali regionali si ipotizzava che nessuno sarebbe riuscito a lasciare il Cairo. E oggi, quella previsione si è puntualmente avverata. Mentre scrivo, il gruppo della Marcia è bloccato a nord della capitale; a tutti sarebbero stati sequestrati i passaporti. In questi casi, lo scenario più probabile è l’espulsione. Sotto un sole cocente, e senza alcuna comunicazione ufficiale, i presenti denunciano dai social l’assenza totale di informazioni.
Intanto, la carovana è trattenuta a lungo a Bengasi — nella Libia orientale, sotto il controllo del generale Haftar, storico alleato del presidente egiziano Al-Sisi. Bengasi dista oltre 700 km dal confine egiziano, e Rafah altri 1000. L’appuntamento del 15 giugno, a questo punto, sembra sfumato.
Cosa succederà nelle prossime ore è un punto interrogativo che si aggiunge ai tanti altri di questi giorni.