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Ismo Alanko – biografia, recensioni, streaming, discografia, foto :: OndaRock

Mi piace davvero la lingua finlandese, che considero il mio strumento. Penso che suoni molto bene nel rock: è aspra, ma anche estremamente bella. Le vocali lunghe e le consonanti dure – la trovo semplicemente perfetta
(Ismo Alanko)

Tutta la musica è musica folk… Non suono folk finlandese tradizionale né folk americano… Piuttosto qualcosa che ha a che fare con lo spirito finlandese, con la natura finlandese, qualcosa di quel genere.
(Ismo Alanko)

Tra Helsinki e Joensuu: la nuova voce del rock in suomi

f86807d75af31b4a90db2c5bc756bb072222Quando si parla di musica finlandese all’estero, il pensiero corre veloce al metal sinfonico o al gothic rock: Nightwish, Him, Amorphis, Children of Bodom. Eppure la vera rivoluzione era già iniziata altrove: tra synth e chitarre taglienti della new wave, nei club underground di Helsinki e Tampere, nei vinili che parlavano ai giovani in una lingua nuova – il suomi.

Negli anni Ottanta la Finlandia vive una stagione fertile e affascinante, lontana dai riflettori ma ricca di fermento creativo. Una scena capace di coniugare influenze punk, post-punk, rock d’autore e sperimentazione linguistica. Alla fine degli anni Settanta il Paese attraversa trasformazioni rapide: urbanizzazione, crisi economica, alienazione giovanile e influenza angloamericana aprono la strada a nuove forme d’espressione. Le nuove generazioni cercano una voce propria, diversa dal folk patriottico del passato. La scelta del finlandese non è solo stilistica ma anche identitaria. Il punk esplode in Finlandia in forme ruvide, poetiche e sarcastiche, radicate nella realtà sociale.

In questo clima di fermento Ismo Alanko emerge come figura centrale. Prima con gli Hassisen Kone, poi con i Sielun Veljet, quindi come solista e infine con il progetto Säätiö, attraversa e reinventa ogni fase della musica finlandese contemporanea. Ha dato voce al disagio giovanile, al misticismo urbano e alla nevrosi quotidiana, con una versatilità rara e una scrittura personalissima. La sua capacità di rendere il finlandese sonoro e ritmico ne ha fatto uno strumento potente nel rock.

La Finlandia degli anni Ottanta non era solo chitarre distorte e folklore: era poesia da strada, rock sciamanico e anarchia in quattro quarti. E se oggi molti ricordano i suoni cupi del metal nordico, è perché prima qualcuno ha acceso la miccia con parole taglienti, distorsioni, tastiere e una lingua finalmente viva. Ismo Alanko è stato il catalizzatore e l’alchimista di tutto questo – ed è da qui che comincia il nostro viaggio.

Hassisen Kone: il rock tagliente dell’affettatrice di salsicce

ski09a8530_2405x4051Ismo Kullervo Alanko nacque il 12 novembre 1960 a Joensuu, nella Carelia orientale. Crebbe in una famiglia colta e musicale: il padre fu medico, la madre insegnò musica, e i fratelli intrapresero tutti carriere artistiche – Ilkka divenne frontman dei Neljä Ruusua, Petri flautista nell’orchestra filarmonica di Zurigo. Ma fu Ismo a distinguersi per talento precoce e inquietudine creativa. Da adolescente studiò violoncello al conservatorio, salvo poi restare catturato dal fascino del rock. Trasferitosi a Helsinki per motivi di studio, entrò in contatto con la scena alternativa della capitale e iniziò a scrivere in finlandese, influenzato da artisti locali come il dissacrante cantautore Juice Leskinen. L’estate del 1979, trascorsa a Stoccolma, segnò una svolta: lì percepì come la nascente new wave stesse dando un nuovo respiro anche alla scena finlandese, offrendo quella freschezza che in patria sembrava mancare.
Al rientro a Joensuu, influenzato da Talking Heads, Xtc e Joy Division, fondò con alcuni amici gli Hassisen Kone – Reijo Heiskanen alla chitarra e i fratelli Harri e Jussi Kinnunen alla batteria e al basso. Il nome, preso da una ditta locale di affettatrici per salsicce, fu una scelta ironica e volutamente antiborghese che anticipò la cifra dissacrante del gruppo.

Arriviamo Finlandia!

76ebc919d7683dd890a4ff5e47311df630ba8a20b4296b613c5c7d00c85a5b11_smallNel marzo 1980 i Hassisen Kone vinsero il Finnish Rock Championship nella categoria new wave e, pochi mesi dopo, pubblicarono il debutto “Täältä tullaan Venäjä!” (“Arriviamo, Russia!”), manifesto della nuova generazione. Il titolo, beffardo e provocatorio, annunciò un disco che alterna sberleffi e invettive, fonde una vena post-punk in brani brevi – due o tre minuti – costruiti su riff diretti e un’irruenza melodica tipicamente finlandese. La produzione fu affidata a Pantse Syrjä, chitarrista degli Eppu Normaali – pionieri del punk finlandese che negli anni successivi avrebbero dominato le classifiche con un rock insieme autoriale e radiofonico – e riuscì a catturare l’energia della band con sorprendente nitidezza. Tra i brani spicca “Rappiolla”, feroce satira del moralismo borghese e religioso che scatenò polemiche roventi:

Ascolti dalla tua poltrona davanti alla tv
la mia voce di merda
e sei troppo pigro persino per cambiare canale,
urli a tua moglie: “Portami una birra!”.
Se la decadenza è questo – amare,
cogliere l’attimo, non voler uccidere –
è bello stare in decadenza,
essere solo uno zero assoluto.

Il termine finlandese rappiolla significa “in decadenza” o “in rovina”. Alanko lo rovescia in chiave liberatoria: la decadenza come rifiuto delle norme e del consumismo, un paradosso che riecheggia quello che i CCCP sintetizzeranno in “Io sto bene”. La crudezza del linguaggio – “voce di merda” inclusa – indignò l’establishment: l’associazione cristiana Suomen Kristillinen Liitto ne chiese la censura, mentre la giornalista Anneli Tempakka di Yleisradio denunciò la “volgarità” del testo. La band reagì con sarcasmo, arrivando a dedicare alla cronista un ironico inno natalizio. Paradossalmente, le polemiche fecero esplodere la popolarità del brano.

“Täältä tullaan Venäjä!” segnò una scossa per la scena nazionale: conquistò subito il primo posto in classifica, ottenne nel 1997 la certificazione di platino con oltre 60mila copie vendute e impose sul palco la teatralità sfrenata di Alanko. Un debutto che, con appena trentacinque minuti di musica, ridefinisce il suono del rock finlandese, unendo spavalderia punk e scrittura colta.

Melodie brutte, verità scomode

hassisen_kone_1982800x4502Dopo il trionfo di “Täältä tullaan Venäjä!”, gli Hassisen Kone si ritrovarono catapultati in un ruolo scomodo: ovunque andassero, il pubblico chiedeva con ossessione “Rappiolla”, al punto che la band smetteva di suonarla, stremata dai bis richiesti a gran voce. Fu un periodo febbrile, segnato da un doppio movimento: da un lato l’esplosione della popolarità, dall’altro un dibattito acceso sui contenuti delle canzoni, giudicati irrispettosi verso l’establishment. Alanko replicò con la sua consueta ironia: “Se c’è qualcosa di tremendamente brutto, perché dovrebbe essere raccontato in modo carino?”. 
In questo clima nacque “Rumat sävelet” (letteralmente “Melodie brutte”), pubblicato nel 1981. Con il debutto Alanko aveva puntato su ironia e ritmo; qui la scrittura diventa più cupa, introspettiva e complessa. Il titolo stesso – “melodie brutte” – rivela la volontà di affrontare le contraddizioni della vita senza filtri o abbellimenti. L’album fu accolto come “più serio e maturo” rispetto al predecessore. Nei testi emergono ansie esistenziali, disincanto religioso, riflessioni sulla società e sul ruolo del musicista. “Rumat sävelet” conserva le radici punk e new wave, ma evolve verso tonalità più cupe e teatrali, con ombre gotiche. Alanko aggiunge tastiere e violoncello alle chitarre e alla voce, donando al suono una profondità inedita; al centro rimane la potenza rock della band, ora declinata in chiave drammatica. Nonostante il cambio di tono, resta intatta la capacità del gruppo di scrivere melodie orecchiabili. Spiccano arrangiamenti accurati, come il pianoforte disteso di Safka Pekkonen in “Pelkurit” o la marimba discreta sullo sfondo, ma il fulcro rimane il canto graffiante di Alanko, più che mai protagonista.

L’apertura, “Oikeus on voittanut taas” (“La giustizia ha vinto ancora”), mette in scena la caricatura di un bollettino giudiziario: il ritornello trionfale stride con la freddezza delle immagini – «La giustizia è, la giustizia ha vinto di nuovo. Occhio per occhio e la pace è sulla terra» – e la band costruisce una marcia ossessiva, con batteria implacabile, basso pulsante e riff taglienti che evocano una giustizia senza volto. In “Führerin puolesta” (“Per conto del Führer”) la satira si fa grottesca e blasfema: “Siamo dalla parte del Führer, Ma chi è quel Führer? Ha concepito dal grembo sacro.  Il cui figlio è invincibile”, declama il protagonista come in un comizio politico, mentre la band costruisce un punk sghembo, pieno di sbandamenti volutamente caricaturali, che richiama il post-punk berlinese e le sue derive dada.

“Jurot nuorisojulkkikset” (“Celebrità giovanili scorbutiche””) è un brano autoironico e amaro: Alanko riflette sul destino delle icone giovanili, idolatrate e subito inghiottite dallo Stato. La musica procede lenta rimanendo intrappolata in un groove nervoso che amplifica il senso di cattura e assimilazione. Con “Jeesus tulee” (“Gesù sta arrivando”), l’attacco si sposta sull’estasi religiosa trasformata in réclame aziendale: “Padre celeste e figlio S.p.A. Oggi l’amore si vende a poco prezzo”, canta Alanko come un telepredicatore impazzito. La musica si struttura attorno a un riff di chitarra ripetuto e a un groove di basso serrato, sostenuti da una batteria veloce, componendo una parodia liturgica che diverte e inquieta al tempo stesso.

Il tono cambia radicalmente con “Tällä tiellä” (“Su questa strada”),il brano  più intimo e malinconico del disco: una ballata lenta e spoglia che racconta l’incontro mancato tra due sconosciuti – «Sera, il tavolo è familiare. Volti strani aprono la bocca / Il vuoto ci circonda e il dolore / E nessuno osa raccogliere le proprie ossa». È una vulnerabilità nuova, che anticipa certe atmosfere intime del cantautorato finlandese degli anni Novanta. “Pelkurit” (“I codardi”) riporta al registro ansiogeno: basso e batteria martellano con ossessione, mentre la ripetizione dei versi (“Ho troppa paura di te, hai troppa paura di me, abbiamo paura del mondo”) produce un effetto claustrofobico. L’interpretazione di Alanko, rabbiosa e disperata, trasforma la paura reciproca in una condanna all’isolamento.

“Rumat sävelet” rappresenta una svolta netta: non più ironiche ragazzate punk, ma un rock cupo e riflessivo. La rivista Soundi lo definì “feroce”, termine che sintetizza bene l’atmosfera del lavoro. L’album raggiunse il quarto posto in classifica, fu certificato disco d’oro nel 2005 (oltre 50mila copie vendute), Soundi gli assegnò quattro stelle e Yleisradio lo incoronò “disco nazionale dell’anno (musica leggera)” per il 1981. Nel 2005 la stessa rivista lo collocò al quinto posto tra i migliori album pop finlandesi di sempre. Tutto ciò sancisce “Rumat sävelet” come un classico: conferma gli Hassisen Kone come la band più originale della loro generazione e apre la strada alle sperimentazioni del successivo “Harsoinen teräs”.

Apice e dissoluzione

4dcdec9205e3466592d015213319b270Nel 1981 gli Hassisen Kone parteciparono al tour Tuuliajolla, un happening rock itinerante sul lago Saimaa: giovani band – tra cui Eppu Normaali e Juice Leskinen Slam – si esibirono su una nave, spostandosi da porto a porto tra folla e acque placide. Paradossalmente, tutte e tre le band furono riluttanti a esibirsi per ultime, spesso fiaccate dall’eccessivo consumo di alcol. Il contesto fu immortalato nel documentario dei fratelli Kaurismäki Saimaa-ilmiö (1981), che non nascose l’altra faccia della tournée: eccessi, improvvisazioni notturne e quella che la voce narrante definì “filosofia notturna infernale”. Verso la fine dello stesso anno la band ampliò la formazione: entrarono in pianta stabile Safka Pekkonen (tastiere), Antti Seppo (sax) e Hannu Porkka (xilofono e percussioni). Nell’inverno 1981–82 il chitarrista Reijo Heiskanen lasciò il gruppo, sostituito dal giovane Jukka Orma. L’allargamento della line-up portò un cambio netto: colori orchestrali, scrittura più ambiziosa, ritmiche più complesse. La svolta non fu solo timbrica: il gruppo cercò incastri, poliritmie, un fraseggio meno quadrato e più mobile, costruendo un mondo sonoro denso e offbeat. Le prove del terzo album si svolsero in una villa isolata: lunghe jam notturne, disciplina e trance creativa, con sax e tastiere a tagliare il silenzio dei boschi.

Nel marzo 1982 “Harsoinen teräs” (“Garza d’acciaio”) segnò l’esito più ambizioso e sofisticato del percorso creativo degli Hassisen Kone. Con questo album – il loro terzo e ultimo – il gruppo abbandonò definitivamente il punk ironico dei primi lavori, dando vita a un disco di “psichedelia new wave” dal gusto romantico, in cui l’impeto post-punk finlandese si fonde con divagazioni prog, tocchi di reggae e ska e arrangiamenti elaborati ma coesi. Il disco raggiunse rapidamente la vetta delle classifiche finlandesi e ottenne il disco d’oro per quasi 50mila copie vendute. In parallelo venne realizzata una versione promozionale in inglese, “High Tension Wire”, che però non riuscì a cogliere lo spirito poetico dell’originale e rimase lontana dal successo nazionale.

Ogni brano aggiunge un tassello a un mosaico denso, a tratti mistico, dove introspezione lirica e critica sociale restano in equilibrio.
La title track, posta in apertura, definisce l’atmosfera peculiare dell’album: visionaria ma controllata, corporea e astratta al tempo stesso. Il brano poggia sul tremolo di uno xilofono e su un riff di piano elettrico che, intrecciandosi a una linea di basso articolata e a un incedere di batteria interamente costruito sui tom, genera una sorta di tango mutante dalle tinte noir. La voce di Alanko procede come in trance, scandendo versi che fondono materia e carne, seduzione e violenza: “La plastica mangia le ciambelle e il ferro canta di nuovo puoi goderti la giornata con il cemento” e ancora “Morbida e calda, bella e lucente ghigliottina”.
“Kupla kimaltaa” (“La bolla scintilla”) alterna ritmi ansiogeni e momenti corali dal taglio più ironico, strizzando l’occhio allo ska fra chitarre in levare, barriti di sax e bruschi cambi di andamento. Il protagonista, che “svita il cuore” per cercare un paradiso artificiale, incarna la quieta alienazione di un mondo senza colpa né passione.

“Levottomat jalat” (“Piedi inquieti”), la hit dell’album, si apre con un andamento reggae guidato dall’organo Farfisa, mentre il ritornello è una cavalcata post-punk dalle nervature funk. Il sax entra a sorpresa, accrescendo la carica del pezzo: l’atmosfera è insieme euforica e nevrotica, riflesso della prova vocale di Alanko, che alterna fraseggi rapidi e taglienti a brevi aperture di respiro, trasmettendo un senso di urgenza giovanile. Il ritornello, accattivante e ripetitivo al punto giusto, traduce in ritmo l’irrequietezza del testo: un corpo che non riesce a fermarsi, spinto da una frenesia senza scopo.

Altro brano cardine, “Totuus” (“La verità”) rallenta i battiti e cala l’ascoltatore in un clima contemplativo. La batteria resta in territorio reggae ma con passo più pacato, lo xilofono ricama incessante, e l’arrangiamento introduce echi dub, con riverberi e sospensioni che dilatano lo spazio sonoro – una scelta inedita per il rock finlandese dell’epoca. La voce di Alanko emerge come una presenza oracolare: “La verità è conquistata, distorta e spezzata. Non è una bocca affamata che divora la giustizia, ma esige uguaglianza.”
Con i suoi due minuti e mezzo, “Eksyneet lampaat” è una secca impennata post-punk giocata su basso slappato, tappeti percussivi e inaspettati intrecci fra pianoforte elettrico e acustico. Ancora più aggressiva è “Julkinen eläin” (“Animale pubblico”), sospinta da fendenti di sax, trame psichedeliche di organo elettrico e xilofono, e un ritornello scandito come uno slogan pubblicitario. Il testo tratteggia una società che trasforma la natura in spettacolo, fra ortaggi in vetrina e creature da esposizione.

“Kuollut eläköön” (“Viva il morto!”) si sviluppa come una mini-suite in più atti. L’introduzione lenta – “Era un grande uomo, ora giace lì. Il re è morto” – evoca un’epica sepolcrale con accordi di pianoforte stentorei, per poi descrivere un “esercito del lutto con veli funebri” che accompagna un sovrano vacillante, metafora di un potere in disfacimento. Dopo l’ingresso della sezione ritmica, la struttura si frammenta in scatti funk, affini ai coevi Talking Heads, e deviazioni jazz-rock dominate dal sax, quasi a rappresentare il caos successivo alla caduta del re. La tensione culmina in un ritornello corale – “Il re è morto, viva il re! Così il mondo riceve di più da lui” – che suona come una proclamazione paradossale, tra rituale e satira. Il brano si chiude su toni più raccolti, riallacciandosi all’introduzione. Jussi Kinnunen lo ha definito “un’opera folle con un numero assurdo di sezioni – prog pazzesco e virtuosismi a non finire!”, e la definizione calza perfettamente: “Kuollut eläköön” è il vertice tecnico e drammaturgico dell’album, una cerimonia laica sulla fine del potere e, insieme, una prova di forza degli Hassisen Kone.
Dopo un simile climax, l’album vira bruscamente verso la leggerezza di “Olen toki, vain sen tiedän” (“Certo che sì, questo è tutto ciò che so”), un pop-funk più lineare ma ricco di sfumature: raffiche di percussioni, intrecci di tastiere e chitarre arpeggiate, fino all’assolo di sax più rumoroso della scaletta.

La chiusura è affidata a “Pelko” (“Paura”), brano monumentale che incarna una sintesi compiuta della poetica degli Hassisen Kone. La struttura è bipartita: l’introduzione grave e solenne – dominata da organo, basso profondo e voce trattenuta – evoca un’atmosfera quasi liturgica. Poi il pezzo deflagra in un groove sincopato dal sapore dub-reggae, in cui Alanko ripete ossessivamente “pelko, pelko…”, trasformando l’ansia in mantra. Il brano esplode e si ritira, fino a sfumare in un fischio malinconico che lascia l’ascoltatore sospeso. “Pelko” è un epilogo magistrale, dove la paura non viene solo evocata, ma attraversata fino alla quiete.

“Harsoinen teräs” rappresenta il punto d’arrivo di un’evoluzione rapidissima ma coerente: in tre anni gli Hassisen Kone passarono dal sarcasmo giovanile a un’idea di rock colta e intellettuale. Nell’agosto 1982 Alanko percepì che il gruppo aveva già detto tutto ciò che poteva dire e prese una decisione sorprendente: scioglierlo proprio all’apice della popolarità. Non fu un fallimento, ma una scelta di rinnovamento: “Non volevo fossilizzarmi. Avevo bisogno di distruggere tutto per creare qualcosa di nuovo”, disse poi.

Quell’addio radicale circonda l’album di un’aura quasi sacrale. “Harsoinen teräs” resta un punto fermo della musica finlandese: la sua influenza si coglie negli anni successivi, in quell’intreccio di rigore ritmico, ricerca linguistica e tensione emotiva che molte formazioni dell’alternative finlandese fanno proprio. Gli Hassisen Kone restano un caso unico: una band che brucia le tappe con velocità impressionante, lasciando tre album diversissimi ma tutti fondamentali. La loro importanza va oltre le vendite o le mode: ridefiniscono cosa possa essere la lingua finlandese nel rock, dimostrando che può essere tagliente, poetica, persino mistica.

Sielun Veljet: non una band, ma una setta

9fef497eeabd4f738c8a8ef6448bd184_2Nel 1982 Alanko fondò una band effimera chiamata Iskelmätaivas, che reinterpretò in chiave rock vecchi brani schlager¹ finlandesi. Al suo fianco c’erano Jukka Orma, Alf Forsman, Sakari Kuosmanen, Pedro Hietanen e Karri Koivukoski. Il gruppo ebbe vita brevissima, con appena due concerti al Vanha Ylioppilastalo (la “vecchia casa dello studente”) nello stesso anno. Uno di questi, il 17 agosto, fu registrato da Yleisradio e trasmesso in parte via radio e televisione.
Ma il progetto vero fu un altro. Alanko immaginò una nuova band fondata su un’idea di collettività, una “tribù” senza leader, in cui tutti i membri avessero pari dignità. L’intento fu dar vita a una forma di “anti-musica” o “arte dell’insulto”, capace di sfuggire all’assimilazione da parte del grande pubblico. “Nell’aria fermentava da tempo l’idea di un nuovo gruppo che suonasse musica ritmica più grezza”, avrebbe ricordato. L’obiettivo fu opporsi alle melodie patinate del mainstream: così, con Orma iniziò a delineare un progetto che abbandonò ironia e vena pop per abbracciare un’estetica più primitiva, con ritmi crudi, testi criptici, suoni distorti e un linguaggio dominato dall’urgenza. Già nel 1982 i due lavorarono su demo embrionali che anticiparono l’approccio dei futuri Sielun Veljet (Fratelli dell’anima).

La formazione definitiva nacque proprio dagli Iskelmätaivas, con Alanko (voce, chitarra), Orma (chitarra), Forsman (batteria) e Jouko Hohko (basso). In origine si era pensato a un bassista più anziano, ma fu scelto Hohko, che secondo Alanko portò “il fuoco finale, il groove e l’odore di sesso” necessario al gruppo.
Un altro elemento importante fu Jouni Mömmö, che contribuì con i suoi “suoni strani” di sintetizzatore all’album di debutto e ai primi concerti. La band volle incidere il primo disco dal vivo, convinta che “il lavoro di illuminazione del light designer della band, Viholainen, non si sarebbe visto in una registrazione in studio” e che l’interazione tra luci e atmosfera fosse insostituibile. L’approccio live, unito agli inserti elettronici di Mömmö, diede forma a un sound iniziale segnato da rock rumoroso e influenze no wave.

Fin dall’inizio, Alanko chiarì che i Sielun Veljet non rappresentarono una continuazione degli Hassisen Kone, ma la loro radicale negazione. Nessun compromesso melodico, nessuna ricerca dell’hit: l’intento non fu piacere, ma destabilizzare. I primi concerti si configurarono come sedute terapeutiche: lunghe improvvisazioni, volumi assordanti, voci urlate, esplosioni improvvise alternate a momenti ipnotici. Alanko stesso dubitò che tale caos potesse funzionare su disco: ciò che contò fu il presente del live, un rituale collettivo in cui la musica divenne catarsi. Questa attitudine antagonista si rifletté anche nell’identità visiva. Nessun look costruito, nessuno slogan politico: solo sudore, volti contorti e strumenti spinti al limite. Nessuna moda da seguire – i Sielun Veljet vollero semplicemente suonare la musica che amavano. Il loro suono fu spesso accostato al post-punk europeo, ma con tratti distintivi: chitarre martellanti, basso pulsante, batterie tribali e testi più declamati che cantati, immersi in un’atmosfera viscerale, teatrale e talvolta lisergica.

Sul palco offrirono esperienze multisensoriali: scenografie essenziali, luci psichedeliche e corpi in movimento continuo coinvolsero il pubblico in un rito collettivo. Non si trattò di intrattenere, ma di liberare un’energia al confine tra danza e trance. Celebre fu il concerto a Nivala del 1982, durato oltre quattro ore e mezza, interrotto solo quando il personale trascinò Alanko giù dal palco. La presenza scenica intensa e provocatoria spesso lasciò il pubblico interdetto: molti si allontanarono dopo pochi minuti, colpiti da elementi volutamente disturbanti – come sputi nei microfoni, salti sui tavoli dei bar e testi grotteschi. Fu una sorta di selezione naturale, volta a radunare solo chi fu pronto a confrontarsi con quell’arte senza compromessi. Così nacque il loro seguito di culto, ristretto ma devoto.

¹ Genere di musica popolare diffuso soprattutto nell’Europa centrale e settentrionale, caratterizzato da ballate sentimentali, melodie semplici e arrangiamenti di facile presa.

La furia registrata: quando il caos prende forma

r150527416943536484936_2Il primo album, intitolato “Sielun veljet”, fu pubblicato nel maggio del 1983 e venne registrato dal vivo durante un concerto al club Vanha di Helsinki nel marzo dello stesso anno. Il suono è violento e convulso: chitarre in overdrive, basso pesante e batteria martellante definiscono tessiture graffianti e dirette, tese a un impatto immediato. Nei brani – spesso lunghe jam su cui Alanko sovrappone vocalizzi gutturali – si intrecciano sax abrasivo e disturbi elettronici, che accentuano un clima notturno e allucinato. I testi, densi di immagini surreali e allusioni taglienti, spaziano dal nichilismo di “Yö erottaa pojasta miehen” (“Nella notte il ragazzo diventa uomo”) ai richiami regionali di “Karjalan kunnailla”, con riferimenti alla Carelia, fino alle figure storiche di “Emil Zatopek”. Non mancano brani di denuncia politica (“Politiikkaa”) e osservazioni sociali. Questo intreccio di esistenzialismo e rabbia punk fa dell’album un’esperienza spiazzante e viscerale: non vi sono melodie convenzionali, ma un flusso emotivo primitivo, dove realtà e incubo si confondono.

L’Ep “Lapset” (1983) – “Bambini” – fu pubblicato pochi mesi dopo e raccolse altri sei pezzi. Anche qui prevale un’impronta tesa e compatta: brani brevi, frenetici, attraversati da ritmi ossessivi e chitarre nervose. Pur nella brevità, “Lapset” non concede tregua: le tonalità restano cupe e taglienti, con aperture improvvise di feedback e squarci onirici in “Tuuli” o “Järviä, järviä”.I testi giocano sul contrasto fra l’innocenza evocata dal titolo e la violenza della musica: emergono temi sociali e politici (il singolo “Lapset” riflette sulla condizione umana contemporanea attraverso lo sguardo infantile), insieme a frammenti poetici intrisi di metafore naturali (“Elintaso” allude al benessere materiale) e di ribellione culturale (“Viimeinen mohikaani”, simbolo dei sopravvissuti alla cancellazione identitaria). Anche qui il suono resta spettrale: basso rimbombante, batteria ossessiva, chitarre scheletriche. Brevi pause improvvise interrompono la frenesia, rendendo l’ascolto fisico e ipnotico.

Al momento dell’uscita, critica e pubblico furono spiazzati. La stampa underground faticò a collocare uno stile così aggressivo: alcuni recensori ne lodarono il coraggio sperimentale, riconoscendo nei Sielun Veljet un’evoluzione dello spirito originario del punk, mentre altri reagirono con perplessità di fronte a quel fragore intransigente. Anche i fan degli Hassisen Kone si divisero: alcuni abbracciarono la svolta, altri la rifiutarono. Sul piano commerciale i risultati furono modesti: l’album si fermò al decimo posto, con due soli mesi di permanenza in classifica, e l’Ep passò quasi inosservato, in netto contrasto con i successi del gruppo precedente. Col tempo, tuttavia, critici e nuovi ascoltatori riconobbero in “Sielun veljet” e “Lapset” il primo lampo di genio di una band destinata al culto.In definitiva, due documenti fondamentali che spingono il rock finlandese ai suoi estremi, influenzandone la scena per decenni.

Un episodio racconta bene lo spirito di quel periodo: durante il tour di “Sielun veljet”, Jukka Orma si ferì tagliando del pane, recidendosi alcuni tendini. In pieno spirito punk, rifiutò di annullare le date e proseguì nonostante il dolore. La registrazione del concerto finale ne risentì, ma la band non smette di portare sul palco una furia incrollabile.

Il 1984 fu un anno di trasformazione: il caos primordiale venne incanalato in strutture più compiute, pur mantenendo una natura rituale e liberatoria. In questo contesto nacque “Hei soturit” (1984), primo album in studio, che fonde post-punk e tribalismo. Brani come “Satama” e “Tää on tää” mostrano una nuova attenzione alle dinamiche, all’equilibrio tra tensione fisica e forma-canzone: chitarre meno abrasive ma più psichedeliche, sezione ritmica che esplora groove più articolati. Degno di nota è “Rauhallista”, esperimento psichedelico dai toni doom e avanguardistici: un paesaggio sonoro lento e pulsante che crea un’atmosfera sospesa, in netto contrasto con la frenesia del passato. Il testo ripete come un mantra la parola “rauhallista” (“è così tranquillo”), ma la calma evocata suona minacciosa, trascinando l’ascoltatore in una quiete inquieta.

Questo periodo segnò la maturazione del gruppo: “Hei soturit” rappresenta un ponte tra gli esordi e l’architettura visionaria del disco successivo. La forma si fa più solida, il suono è più controllato, ma l’anima resta febbrile e provocatoria.I concerti, sempre travolgenti, acquisiscono una tensione quasi cinematica. Tutto ciò prepara il terreno per “L’amourha”, l’album che sintetizza e supera ogni elemento esplorato fino a quel momento.

Amore/Omicidio: il manifesto totale

sielunveljet2Nel 1985 i Sielun Veljet raggiunsero il vertice della propria parabola artistica con “L’amourha”, unendo la rabbia rituale degli esordi, la psichedelia aspra di “Hei soturit”, la teatralità punk delle performance dal vivo. Il titolo, finto francesismo che fonde “l’amour” (amore) con “murha” (omicidio), condensa la visione disturbante che attraversa il disco: l’amore non come rifugio, ma come ossessione, perdita, strazio. Il suono è più che mai controllato: le chitarre di Orma non graffiano soltanto, ma scolpiscono paesaggi sonori; la sezione ritmica pulsa con geometrica potenza; la voce di Alanko è ora urlata, ora sussurrata, guida sciamanica in un percorso che tocca isteria, desiderio e malinconia.

“Peltirumpu” apre a colpi di riff motorik e batteria tribale – un singolo-martello che prende alla gola e non molla. Sotto la spinta del groove, il testo mette in scena una fiaba nera: un tamburo di latta dimenticato nell’armadio assiste a un gesto estremo – il bambino che dà fuoco alle tendine “per vedere il sole” – e resta lì. Il ritornello ribadisce l’idea di una prigione dorata da cui si evade solo distruggendo, con l’oggetto-narratore a incarnare isolamento e frustrazione. Melodicamente il refrain è irresistibile e, nel suo slancio, richiama in filigrana la linea vocale di “Che freddo fa” di Nada – un cortocircuito sorprendente tra pop italiano e ossessioni punk finlandesi che amplifica l’effetto trance del brano.

Segue “L’amour”, aperta da una chitarra dal timbro metallico che disegna un pattern circolare, presto travolto da una sezione ritmica martellante. L’andamento è più vicino all’art-punk che al rock convenzionale. Il pezzo gioca tutto sull’accumulo dinamico: ogni strofa aggiunge un elemento – cori, riverberi, chitarre percussive – fino a un climax finale in cui la voce di Ismo Alanko si fa quasi sciamanica. “Tiskirätti” (“straccio da cucina”) è fra i brani più abrasivi del disco e mostra la vena più “fisica” della band, con un ibrido di punk rock e funk dissonante non lontano dai primi Gang of Four o dai coevi Minutemen. Il testo è una satira del conformismo domestico e delle relazioni ridotte a routine: lo “straccio da cucina” diventa metafora di chi si lascia usare e consumare senza reagire, simbolo della passività quotidiana. Sporco, ironico, volutamente sgradevole, ma proprio per questo liberatorio. “Ikävä” costruisce un’atmosfera ipnotica, con basso e chitarre che si rincorrono come in una spirale. Il tempo è medio-lento, ma costantemente in tensione. “Talvi” rappresenta il cuore poetico del disco: un paesaggio invernale notturno e scintillante, tra “laghetti pieni di diamanti” e “foreste di purissimo argento”. Il ritornello diventa mantra: “inverno e ghiaccio, oscurità luminescente, inverno e ghiaccio, bellezza che punge”. Una lirica ipnotica in cui freddo e bellezza sono tangibili, e il gelo “scorre dentro al viandante” fino a confondersi col sangue. La musica accompagna con chitarre ovattate, basso liquido ed esplosioni improvvise, restituendo un affresco che cattura l’immaginario nordico.

La cover, “Toiset on luotuja kulkemaan” (“Alcuni sono nati per vagabondare”), rielabora in chiave oscura “Wand’rin’ Star”, brano scritto da Alan Jay Lerner e Frederick Loewe per il musical western “Paint Your Wagon” (1951) e reso celebre dall’interpretazione cinematografica di Lee Marvin (1969). I Sielun Veljet la trasformano da ballata western in una marcia spettrale: la batteria scandisce colpi pesanti come passi nel deserto, il basso rimbomba e le chitarre vanno in crescendo, da arpeggi riverberati a coltri di distorsioni. Alanko canta con un tono baritonale, ironico e teatrale, ma anche intriso di malinconia, mentre i cori bassi evocano una schiera di fantasmi cowboy. L’eco sulla voce e la chitarra slide deformata amplificano l’atmosfera da western apocalittico. “Kanoottilaulu” (“La canzone della canoa”) è tratta da un canto popolare finlandese (“Kanootin kapean vesille lasken”) e trasforma una semplice melodia folk in un rituale ipnotico. La band costruisce il brano su un ritmo incalzante di percussioni e cori ripetitivi, in un’atmosfera da trance collettiva. Il canto corale, con il celebre ritornello nonsense “Hayaayahaa…”, è il motore del pezzo e richiama antichi canti cerimoniali. L’effetto è quello di una danza attorno al fuoco, sospesa fra folklore e post-punk. Esclusa dal vinile ma presente nelle edizioni in cassetta e Cd, la canzone è diventata una delle più iconiche dei Sielun Veljet.

“On mulla unelma” è una brutale e iconoclastica parodia dello spirito patriottico, un inno rovesciato che trasforma la retorica nazionale in pura provocazione. Un rock da marcia ribelle, è costruita su una batteria dal ritmo quasi militare – ma i colpi sono sporchi e nervosi – e su chitarre distorte e rotonde che sostengono un riff anthemico, fatto per essere urlato in coro. Alanko canta alternando toni da arringatore politico e sarcasmo beffardo, mentre la band costruisce una tensione continua che esplode nel ritornello: “Ho un sogno: un mondo libero / senza confini”. Quel sogno utopico di lennoniana memoria diventa incubo satirico, tra invettive oscene e immagini sacrileghe: “Mi pulisco il culo con la bandiera crociata blu / faccio mangiare Lsd al leone di Finlandia”, o ancora “Strappo via le mani dalla bandiera a stelle / rubo la falce e il martello”. Simboli occidentali e sovietici vengono oltraggiati senza distinzioni. L’inno immaginario dei Sielun Veljet diventa così una radiografia feroce dell’ipocrisia nazionale, una danza macabra sui miti patriottici. La sua trasmissione provocatoria nello show televisivo “Härmärock” del giorno dell’Indipendenza del 1985 fu seguita da una censura immediata da parte di Yle, che accusò il gruppo di blasfemia verso i simboli nazionali. Ma l’effetto fu opposto: la canzone divenne un manifesto di dissenso e consolidò i Sielun Veljet come band anti-establishment. “On mulla unelma” non è un sogno da realizzare, ma da smascherare.

Terza cover dell’album e probabilmente la più inattesa, “Josef, Josef” nasce come brano swing degli anni Trenta (firmato da Sholom Secunda, Sammy Cahn e Saul Chaplin, reso celebre dalle Andrews Sisters) e qui diventa una frenesia klezmer-punk. I Sielun Veljet la trasformano in una corsa sfrenata in 2/4, dal ritmo quasi polka: il basso martella e le chitarre alternano accordi in levare a fraseggi zigzaganti che imitano violini tzigani elettrificati. “Satujen julma taikayö” (“La crudele notte magica delle fiabe”) è una ballata rock drammatica, costruita su un crescendo di chitarre arpeggiate in minore e batteria solenne. Il testo fonde fiaba e realtà: “La luce pallida sul paesaggio mentre i poliziotti cattivi danno la caccia” apre una scena di violenza e magia, mentre l’amore si rivela impossibile – “Troverei rifugio solo nel tuo grembo, ma l’amore mi impedisce di toccarti”. L’ultima immagine, “Abbiamo tempo ogni Natale di piangere sulla tomba”, suggella il lutto e la consapevolezza. Penultimo brano, “Rakkaus raatelee” (“L’amore dilania”) è una marcia rock cupa e catartica. Si apre con un riff discendente e pesante, seguito da basso e batteria che procedono compatti in un 4/4 marziale.

Epilogo spoglio e toccante, “Laulu” (“Canzone”) chiude l’album quasi a cappella: voce di Alanko in primissimo piano, un battito di grancassa lento come un cuore, appena qualche coro. La melodia procede come un lamento, cresce e si ritrae, fino a svanire nel silenzio: dopo la tempesta di “Rakkaus raatelee”, qui la catarsi è tutta nel respiro e negli spazi. Nel testo, immagini naturali e coscienza civile si intrecciano. Apertura da cinema: “Quando le schiere di gru volano verso ovest, i gabbiani cantano l’ultima melodia”; poi l’inquietudine: “La notte è gialla e nera”. Arriva lo sguardo politico-esistenziale: “Chi ci sta ingannando, ora che la terra è rosso-blu?”, e il verdetto: “La verità è stata fatta a brandelli, ognuno di noi lo sa”; “La legge ha spazzato via la polvere della verità: sono puro e mento”. Il lutto diventa rito collettivo: “I morti dormono nelle città sotto un mare di candele, e abbiamo tempo ogni Natale di piangere sulla tomba.” Il cuore emotivo è la scelta di abbracciare il dolore come ultimo bene: “Mi avvolgo nella mia tristezza: è così bello, bello, bello. Questo nessuno può portarmelo via, ho pagato tutto.” E il congedo, ferito ma lucido: “Anche se non sempre riesco a credere e ad amare, qui c’è ancora un sacco di bellezza da guardare.”

“L’amourha” segnò un punto di svolta anche sul piano del successo: raggiunse il numero 2 delle classifiche finlandesi e rimase a lungo nella top ten, vendendo 43mila copie e riportando Alanko ai vertici dopo gli anni in cui i Sielun Veljet avevano scelto di seguire una via deliberatamente anticommerciale. “Peltirumpu” divenne un brano di culto, reinterpretato da numerosi artisti, e l’album è oggi considerato uno dei capisaldi del rock alternativo finlandese.
Intere generazioni – dal rock teatrale al metal industriale – riconoscono nei Veljet e in questo disco un punto di riferimento. Se i primi lavori avevano lanciato una sfida, “L’amourha” la raccolse e la vinse: non più solo caos organizzato, ma opera compiuta.

A suggello di quell’epoca rimane l’episodio della rappresentazione teatrale di “Cappuccetto rosso”, messa in scena al Tavastia Club di Helsinki per celebrare il disco d’oro nel luglio 1985. La trama, ideata nel cottage estivo di Rane Raitsikka della rock band Smack, vedeva i membri della band in ruoli paradossali: Vinski come Cappuccetto, Alanko come nonna, Hohko come lupo e Affe come madre. La reazione del pubblico fu violentissima, tra fischi e richieste di rimborso. Orma lo ricorderà come forse il gesto “più rock’n’roll” mai fatto, “perché il pubblico non l’ha gradito affatto”, a conferma di una vocazione alla provocazione artistica che non cerca consensi.

Dalla furia al controllo

md_00336ae6df7e793858ed8c33Pubblicato nel 1986, “Kuka teki huorin” (“Chi ha commesso adulterio”) segnò un nuovo passo nell’evoluzione dei Sielun Veljet. Dopo il travolgente “L’amourha”, che aveva bilanciato la furia dei primi lavori con una scrittura più articolata, questo album accentuò l’aspetto costruttivo del suono: risultò più rifinito, pensato nei dettagli, e sfruttò appieno le possibilità offerte dallo studio. Il risultato è una prova solida e misurata, che continua a esplorare territori funk-rock, alterna brani influenzati dalla musica nera ad altri che introducono elementi persino “ballabili” e ritmi vicini al rock-blues degli ZZ Top. Questa maggiore attenzione alla forma coincide con una lieve perdita d’impatto: l’urgenza fisica dei dischi precedenti si attenua, lasciando spazio a un suono contenuto, geometrico, meno incendiario – un salto evolutivo che tuttavia sacrifica parte della vertigine espressiva di “L’amourha”.

I brani si muovono lungo un asse più ampio e stratificato: linee di basso slanciate, batteria su metriche irregolari, voce che alterna registri narrativi, sostenuta da cori e impasti timbrici curati. “Kuka teki huorin” si apre con la title track, un brano costruito su un riff circolare, accompagnato da un cantato serrato, quasi ossessivo: è uno dei pezzi più noti dei Sielun Veljet e ne definisce subito l’approccio diretto e crudo. Segue “Säkenöivä voima”, sospinta da una ritmica incalzante, con chitarre secche e un arrangiamento che cresce progressivamente in intensità. In “Kaksin” la band rallenta, lasciando spazio a una ballata dal tono dimesso e amaro, tra le più spoglie e toccanti del loro repertorio. In “Kansallispäivä” tornano velocità e sarcasmo, con un andamento spezzato e una chitarra in primo piano che porta verso un finale caotico. “Mustamaalaan” alleggerisce il tono con una melodia più diretta, che però mantiene l’irregolarità ritmica tipica del disco. “Joku kuuntelee” e “Kristallilapsia” propongono un’atmosfera sospesa, fatta di suoni dilatati e voce trattenuta: nel primo il senso di allerta si fa costante, nel secondo domina un andamento quasi ipnotico. “Pyhä toimitus” si regge su un tempo lento e grave e lavora sul contrasto tra voce e percussioni, mentre “Raskas” chiude l’album con pochi accordi ripetuti e un crescendo finale.

“Kuka teki huorin” vive di tensioni sotterranee, figlio di una fase di transizione. L’equilibrio tra istinto e struttura – naturale in “L’amourha” – qui si incrina leggermente. Non c’è una caduta, ma il suono diventa più meditato, meno posseduto. Al momento dell’uscita fu accolto con interesse e perplessità: la critica finlandese parlò di “fase riflessiva” o di “svolta funk-noir”, notando la parziale rinuncia alla furia originaria. Il pubblico rispose invece con entusiasmo: l’album sfiorò le 29mila copie vendute e conquistò un disco d’oro.

L’ambizione internazionale (L’Amourder)

1b3e52768cfa45318b4cfa71e7bc0db2Dopo l’uscita di “Kuka teki huorin”, i Sielun Veljet intrapresero un progetto ambizioso: assumere una nuova identità per superare i confini linguistici e culturali che li limitavano al pubblico finlandese. Nacque così L’Amourder, alter ego pensato per il mercato internazionale, un nome che giocava con il titolo del loro album più celebre, “L’amourha”, fondendo amour con l’eco sinistra di murder. Il progetto non puntò a nuovi brani, ma a rileggere il repertorio esistente: canzoni già edite vennero tradotte in inglese e reincise dalla formazione originale. L’idea era chiara: non la musica, ma la lingua rappresentava il vero ostacolo all’esportazione; bastava tradurre i testi perché il messaggio risultasse comprensibile anche fuori dai confini nazionali.

Nel 1986 uscì “Ritual”, Ep registrato l’anno precedente, con versioni in inglese di brani già pubblicati, che conservavano la carica abrasiva e viscerale della band. L’anno dopo arrivò l’album completo, “Shit-Hot”. Rispetto all’Ep, che rifletteva ancora il suono incendiario dell’epoca di “L’amourha”, questo disco segnava una svolta: la band era già altrove, più vicina a un ibrido di funk, rock nervoso e sperimentazione teatrale. Brani come “National Day” o “Bitches Brew” rielaboravano in inglese pezzi da “Kuka teki huorin”. Alcuni testi mantenevano la loro provocazione, in altri la trasposizione sembrava smussarne l’impatto: troppo letterale o privata di quella nevrosi finlandese, poteva venire fraintesa. Resta il paradosso che dal vivo i Sielun Veljet funzionano ovunque: intensità, spigoli e ritualità travalicano le barriere linguistiche.

Nonostante le difficoltà di mercato, L’Amourder permise loro di intraprendere un tour europeo nel 1986, culminato in un evento singolare per una band occidentale: un tour nell’Urss. In piena guerra fredda riuscirono a imporsi anche oltre la cortina di ferro, portando la loro energia primordiale a un pubblico nuovo e diverso. Particolarmente suggestiva fu, secondo testimoni, la loro “esplosiva reinterpretazione di “Blowin’ in the Wind” di Bob Dylan, che in quel contesto assunse risonanze impreviste e potenti. Il successo ottenuto in Urss dimostrò la natura comunicativa della loro musica: più fisica che intellettuale, parla direttamente al corpo e allo spirito, superando confini invalicabili per molte altre band. L’Amourder rimane un esperimento pieno di intuizioni e limiti, ma segna uno dei momenti più visionari della parabola dei Sielun Veljet.

Suomi-Finland: la patria sotto pelle

131501832581604077746329Dopo l’esperienza internazionale, nel 1988 i Sielun Veljet tornarono a cantare in finlandese con “Suomi-Finland”. Questo sesto album in studio segnò molto più di una semplice inversione linguistica: rappresentò un deciso cambiamento estetico, con l’abbandono parziale delle tensioni post-punk a favore di territori più intimi, acustici e psichedelici. Il suono si fa più raccolto: le chitarre diventano ovattate, le percussioni si smorzano, mentre flauti e archi – suonati da Jorma Tapio – aggiungono profondità e respiro. Non mancano sprazzi di complessità e soluzioni prossime al prog, ma rilette con una sensibilità minimalista. Anche i testi riflettono questo cambio di passo: il ritorno al finlandese consente alla band di affrontare direttamente temi sociali e culturali del paese di fine anni Ottanta, in particolare l’influenza crescente della cultura statunitense. I brani alternano ironia, introspezione e simbolismo surreale.

“Suomi-Finland” si apre con un velo di chitarra acustica che introduce un disco intenso e sfaccettato. L’ingresso vero e proprio avviene con “Lainsuojaton”, brano dal passo veloce e mordente, in cui i Sielun Veljet fondono l’energia del post-punk con strumenti acustici suonati come lame: il riff nervoso di chitarra guida una ritmica secca e pressante, mentre i fiati di Tapio stridono sullo sfondo. Alanko canta la propria condizione di outsider, restituendo un sentimento di lotta interiore che vibra a ogni colpo di rullante. Segue la title track, amara e sarcastica, costruita su un tempo medio e una melodia circolare che accompagna un ritratto grottesco della nazione: Alanko declama il suo distacco da un paese in caduta libera. Brani come “Huuhaa puuhaa” e “Totuus vai tequila” si spingono verso un folk-rock cabarettistico, tra nonsense e sberleffi, mentre “Rock’n’Roll” si erge a marcia funebre del mito rock, cupa e marziale. Il cuore emotivo del disco è però “Ihminen”, lunga ballata esistenziale che si apre su un arpeggio malinconico e sfocia in un crescendo psichedelico. Alanko si interroga su cosa significhi essere umano, ripetendo frasi come “la pietra è dura, io no”, fino a sfiorare un’apoteosi emotiva e lirica di rara intensità. Nella seconda parte dell’album, i Sielun Veljet esplorano ritmi più danzanti – “Alamäkeen”, quasi un carnevale in discesa – e brume ipnotiche come “Sumuista hymyä”. Ma è l’ultima traccia a lasciare il segno più profondo. “Volvot ulvoo kuun savuun” è una cavalcata incalzante che evoca un’umanità inquieta e animalesca, in preda a una corsa notturna verso l’alienazione. Il titolo visionario diventa immagine sonora: le Volvo ululano, la luna è avvolta dal fumo, i figli dell’uomo impazziscono. È una chiusura feroce, sospesa tra tribalismo e modernità, che incarna la doppia anima del disco – una delle vette più audaci del rock finlandese degli anni Ottanta.

“Suomi-Finland” raggiunse la vetta della classifica nazionale, ma ne scese rapidamente, senza replicare il successo di “Kuka teki huorin” o di “L’amourha”. Con il tempo fu rivalutato come uno dei vertici espressivi dei Sielun Veljet: non un album di transizione, ma una delle opere più coese e mature, capace di condensare inquietudine sociale, visione poetica e tensione musicale.

Un addio silenzioso

2f9b7210d8474a9599eff5f7ccbc88fe2Tra il 1988 e il 1989, i membri della band – in particolare Ismo Alanko e Jukka Orma – iniziarono a manifestare interessi divergenti. Il nuovo album “Softwood Music Under Slow Pillars” (1989) nacque così da un processo quasi isolato dal pubblico, senza singoli né promozione, concepito più come un atto artistico conclusivo che come un rilancio. L’album prosegue la virata acustica già avviata con “Suomi-Finland”: un disco interamente in inglese, registrato in un formato folk rock dai tratti psichedelici, con l’uso di chitarre acustiche, bouzouki, sitar e influenze orientali (dall’India al flamenco). Il risultato è un vero e proprio “balzo a sinistra” stilistico: da band post-punk rumorosa a ensemble mistico e sfaccettato. “Softwood Music Under Slow Pillars” resta uno degli album più affascinanti e personali del gruppo, ma il suo impianto meditativo e l’assenza di mediazione commerciale lo resero un flop (raggiunse solo l’ottava posizione): l’album non fu distribuito al di fuori di Finlandia e Svezia. Nell’album, dominato da atmosfere ieratiche (la copertina ritrae un rituale sciamanico), Alanko rimane l’autore principale, ma Orma firma alcuni brani chiave come “Woe! The Maiden Of My Heart” e “Life Is A Cobra”. Così, il progetto Sielun Veljet entrò rapidamente in una fase di chiusura.

Nel 1989 uscì la raccolta “Myytävänä!”, seguita nel 1991 dal cofanetto triplo “Musta laatikko” (“La scatola nera”), documento definitivo della parabola della band: il primo cd conteneva i brani di un album in studio mai completato; il secondo raccoglieva registrazioni live e cover di Tuomari Nurmio (cantautore tra i più apprezzati dalla critica finlandese); il terzo era dedicato a un intero concerto sotto l’alias Kullervo Kivi & Gehenna, side-project scherzoso con cui reinterpretavano vecchi schlager e tanghi finlandesi in chiave grottesca. Sempre nel 1991 uscì anche il documentario “Veljet”, con la regia di Tahvo Hirvonen. Alanko si ritrovò nella situazione in cui i Sielun Veljet avevano quasi esaurito il percorso e poteva finalmente iniziare la carriera solista.

Conclusasi l’esperienza dei Sielun Veljet, Alanko può ora esplorare più liberamente l’apertura al folk, la scrittura più riflessiva, l’interesse per i mutamenti sociali della Finlandia contemporanea. Tutti elementi che confluiranno in “Kun Suomi putos puusta”, il suo primo album solista. Anche Jukka Orma, coautore e “controvoce” della band, dopo aver dimostrato un gusto spiccato per sonorità etniche (flamenco, jazz, world music), proseguì verso altri progetti. Dopo anni di tour estenuanti e cambi di registro continui – come ricordava un tecnico della band, «il cambiamento era il significato della vita» per i Veljet – gli ultimi passi della band apparvero come una conclusione naturale. Lo scioglimento ufficiale avvenne intorno al 1991.

Cadere dall’albero: il nuovo inizio di Alanko

67123812La parabola dei Sielun Veljet si chiuse senza clamore, ma non senza eredità. Proprio mentre il gruppo si dissolse, Alanko inaugurò un nuovo capitolo artistico in solitaria. Il 1990 segnò l’uscita di “Kun Suomi putos puusta”, esordio che, pur recidendo i legami con l’energia tribale dei Veljet, ne raccolse le tensioni sotterranee per riconfigurarle in una forma più lirica e malinconica.
“Kun Suomi putos puusta” esplora sonorità acustiche e minimali, attraversate da effetti ambientali retrò di derivazione cinematografica e da momenti in cui l’impianto orchestrale assume tratti quasi bandistici, con fanfare sghembe che trasformano la malinconia in una parata visionaria. Sul piano testuale, Alanko dimostra una scrittura narrativa incisiva: nella title track condensa in pochi minuti la trasformazione della società finlandese contemporanea – il latte che diventa “milk“, il pescato sostituito dai surgelati, le fattorie rimpiazzate da abitazioni automatizzate – e restituisce con tono poetico il passaggio dall’universo rurale all’era della globalizzazione. L’artista stesso ha raccontato di averlo scritto pensando alla generazione dei propri genitori, dalle foreste della Finlandia profonda alla modernità urbana. Non mancano episodi surreali che richiamano l’ironia bizzarra già intravista nei Sielun Veljet – come “Masentunut ameeba” (“ameba depressa”), bozzetto intriso di malinconia stralunata – alternati a momenti di intenso intimismo cantautoriale.
La critica accolse l’album con entusiasmo: il quotidiano Helsingin Sanomat assegnò cinque stelle su cinque, lodando la compattezza espressiva e la coerenza d’insieme, capace di trascinare l’ascoltatore e confermare la statura poliedrica di Alanko. Anche il pubblico premiò la svolta: il disco rimase in vetta alla classifica per due settimane e per oltre cinque mesi in top 30, superando le 32mila copie vendute e ottenendo la certificazione d’oro.Negli anni seguenti, “Kun Suomi putos puusta” è stato riconosciuto come una pietra miliare del rock finlandese, fino a essere incluso nell’edizione locale di 1001 Albums You Must Hear Before You Die.

Un autore in cerca di forma

66349e9a8547ad5770cddaeede6c5016Alanko attraversò gli anni Novanta reinventandosi di continuo. Nel 1993 pubblicò “Jäätyneitä lauluja” (“Canzoni congelate”), album di svolta che orienta il suo linguaggio verso un’elettronica dal piglio industriale, costruita su drum loop, programmazioni e un uso deciso dello studio come strumento. È il lavoro più sperimentale della sua carriera, concepito per suonare moderno e tagliente, con la chitarra di Riku Mattila ridotta a elemento di tessitura sonora e la presenza di musicisti legati alla scena rap e dance finlandese. La scaletta, breve e compatta, alterna brani electro-dance ossessivi come “Pornografiaa” e “Laboratorion lapset” a momenti più lirici come “Extaasiin”. “Kuolemalla on monet kasvot” adotta un tono rallentato e denso, evocando la metamorfosi dell’io con immagini inquietanti – “La morte ha molti volti, non solo quelli che sembrano guardare solo te” – mentre “Demokratiaa (mutta vain tietyillä ehdoilla)” (“Democrazia, ma solo a certe condizioni”) si presenta con ritmo sostenuto e marziale, caricandosi d’ironia e critica sociale.
La copertina, firmata dal designer Stefan Lindfors, con il suo immaginario algido, rafforza l’estetica glaciale evocata dal titolo. All’uscita, il disco venne percepito come uno scarto netto rispetto al debutto: “il primo vero album totalmente mio”, dirà Alanko, “con i denti piantati nel bordo della nuova epoca”. Anche i dati confermarono l’impatto: l’album, pur fermandosi al numero 4, mantenne buone vendite nel tempo e ottenne la certificazione d’oro, con singoli come “Extaasiin” e “Kuolemalla on monet kasvot” destinati a restare nel repertorio dal vivo.
Dopo l’uscita, Alanko portò il disco in tour per tutta la Finlandia con una nuova band di supporto, i Tuonelan Lukio (il “liceo di Tuonela”), che annoverava tra le sue fila Izmo Heikkilä del gruppo rap Raptori – un curioso connubio tra rock alternativo ed elettronica hip hop che testimonia tuttora l’eclettismo del progetto.
Nel 1995 pubblicò “Taiteilijaelämää” (“Vita d’artista”), che riporta Alanko su coordinate più rock, pur senza abbandonare del tutto la complessità di scrittura maturata negli esperimenti precedenti. Se “Jäätyneitä lauluja” era un disco di ghiaccio e neon, “Taiteilijaelämää” sceglie toni più caldi e carnali, con arrangiamenti chitarristici che recuperano parte della fisicità del passato e un uso della voce volutamente teatrale. Il tema portante è la condizione dell’artista: la title track mette in scena un autoritratto ironico e amaro, sospeso tra disincanto e autocelebrazione, ma il tono generale risulta meno tagliente, più accomodato nella forma canzone. Brani come “Don Quiote” assumono un tono allegorico, trasformando la figura letteraria in un alter ego combattivo, mentre “Taistelija” (“Combattente”), una delle hit più note di Alanko, amplifica ulteriormente questa immagine eroica. Non mancano episodi più intimi, ma la tensione interiore dei lavori precedenti appare smussata: qui prevale un mestiere sicuro, talvolta prevedibile, che mostra più controllo che slancio.
Nonostante ciò, l’album fu accolto con favore: raggiunse il secondo posto in classifica, superò le 30mila copie vendute e ottenne il disco d’oro, consolidando la centralità di Alanko nella scena finlandese degli anni Novanta – anche se il suo autore, pur nel pieno della popolarità, sembrò attraversare una fase di assestamento più che di autentica ispirazione.
Nel 1996 l’autore cambiò nuovamente prospettiva con “I-r-t-i” (stilizzato “Irti”, termine che significa “via” o “staccato”). Per questo quarto album scelse un approccio frenetico, imponendosi con la band due settimane di tempo per comporre e registrare tutto da zero. Ne nacque un disco costruito come una jam session, con brani improvvisati e una struttura più libera rispetto ai lavori precedenti: un progetto meno rifinito che molti considerano minore, ma che sprigiona una tangibile urgenza creativa, con toni che oscillano tra rock ruvido, accenni funk e passaggi più rarefatti, e con un’energia istintiva che risulta più convincente del più calcolato “Taiteilijaelämää”. “Irti” raggiunse il numero 3 e rimase in classifica per tredici settimane, confermando la fedeltà dei fan e la capacità di Alanko di sorprendere anche nei progetti più estemporanei.
Nel 1997 l’autore sentì l’esigenza di fare il punto sulla propria carriera: esce “Alangolla – Ismo Alangon lauluja”, cofanetto retrospettivo di quattro Cd che ripercorre tutta la sua produzione dagli esordi, includendo brani tratti da progetti paralleli – uno dei primi box set pubblicati da un artista finlandese.
Quasi in contemporanea, sul finire del decennio, Alanko partecipò a una collaborazione destinata a lasciare il segno: insieme al fratello Ilkka (cantante dei Neljä Ruusua) e ai colleghi Kalle Ahola (Don Huonot) e A.W. Yrjänä (Cmx), dà vita al supergruppo Neljä Baritonia (“quattro baritoni”). Il quartetto pubblicò nel 1997 l’ironico singolo “Pop-musiikkia”, scritto da Alanko: il brano venne certificato platino e resta al numero 1 della classifica dei singoli per otto settimane, imponendosi come inno generazionale.

La Fondazione Alanko

saatio_2Il successo di “Pop-musiikkia” chiuse simbolicamente una fase. Dopo un decennio di metamorfosi continue – dall’elettronica algida alle confessioni teatrali, dalle improvvisazioni caotiche alle incursioni pop – Alanko sentì il bisogno di un progetto stabile, capace di integrare le sue anime divergenti in una visione più ampia. La fine degli anni Novanta preparò così il terreno per la nascita dello Ismo Alanko Säätiö, laboratorio collettivo che trasforma quella tensione centrifuga in un’architettura coerente, inaugurando un nuovo capitolo della sua parabola. In finlandese säätiö significa “fondazione”: l’intento è infatti quello di creare una comunità musicale stabile, in grado di accogliere le diverse anime esplorate in passato e fonderle in un linguaggio condiviso.

Il volo del piccione

saatio2Il debutto della nuova fondazione, “Pulu” (“piccione”), uscì nel 1998 e segnò l’avvio di una stagione in cui il rock di Alanko si apre al dialogo con la musica folk e cameristica. Il suono del gruppo, costruito su una base acustica e fortemente timbrica, ruota attorno alla fisarmonica istrionica di Kimmo Pohjonen – definito dalla stampa finlandese “l’Hendrix della fisarmonica” – affiancata da vibrafono, violoncello, clarinetto e percussioni tribali. Lo stesso Alanko alterna chitarra, pianoforte e violoncello, guidando un ensemble in cui la forma rock si fonde con una scrittura densa e teatrale. L’album intreccia melodie popolari finniche e sensibilità contemporanea, fondendo semplicità e rigore in un impasto sonoro originale, dove riaffiora la vena rock d’autore venata di echi prog e classici. “Pulu” inaugura così una nuova fase di equilibrio: meno istintiva ma più costruita, capace di tradurre in coerenza quella molteplicità che aveva caratterizzato l’Alanko degli anni precedenti.
Brani come “Rakkaus on ruma sana” (il cui titolo – “l’amore è una brutta parola” – ironizza sul suono sgraziato di rakkaus, la parola finlandese per “amore”) mostrano il gusto di Alanko per il simbolismo beffardo, ma anche la sua capacità di scrivere una delle canzoni più potenti e memorabili della sua carriera: un intreccio di malinconia e intensità interpretativa che è diventato nel tempo un classico del suo repertorio. Altrove compaiono riferimenti meta-musicali alla tradizione, come in “Tuulipuvun tuolla puolen” (“Al di là della tuta”), che richiama un classico tango finlandese.
L’album debuttò direttamente al primo posto e rimase in classifica per ventiquattro settimane, con oltre 33mila copie vendute, diventando il suo maggiore successo al netto delle due band storiche.
La dimensione live accentuò ulteriormente la componente collettiva del progetto. Nel tour seguito a “Pulu”, Alanko portò la band a esibirsi non nei soliti club rock ma nei teatri e nelle sale da concerto finlandesi, dove il pubblico può ascoltare seduto e concentrato. Questa scelta consapevole permise di mettere in scena spettacoli curati come rappresentazioni organiche, in cui la musica diventa parte di un’esperienza più ampia. In scaletta, oltre ai brani di “Pulu”, trovano spazio nuove versioni “da camera” di pezzi dal repertorio passato di Alanko – dagli Hassisen Kone ai Sielun Veljet fino ai primi lavori solisti. Il tour venne documentato nel live album “Luonnossa” (“Nel mondo selvatico”) del 1999. Questo doppio dal vivo cattura la magia di quei concerti, tra improvvisazioni, momenti intimi ed esplosioni tribali, restituendo la riuscita fusione tra impeto rock e atmosfera cameristica che caratterizza la prima incarnazione dello Säätiö.

Avanguardia pop dentro l’uovo

6b6268e5944f96772b417989731d0a33222Se “Pulu” aveva proiettato lo Säätiö al vertice delle classifiche, “Sisäinen solarium” fu concepito in chiave ancora più ambiziosa e performativa, legato al progetto teatrale Labra. Si trattò di uno spettacolo avanguardistico ideato con il già citato Stefan Lindfors, qui in veste di scenografo, che univa concerto rock e teatro sperimentale all’interno di un’enorme struttura a forma di uovo metallico, con la band al centro e il pubblico disposto tutt’intorno. In questo contesto surreale – tra luci visionarie e una messa in scena quasi sciamanica, ispirata alla mitologia finlandese – la musica dello Säätiö trova nuova linfa. Alanko dichiarò di aver amato quella vicinanza fisica con il pubblico – inizialmente claustrofobica, poi esaltante – che permetteva una comunicazione diretta con gli spettatori.
Le musiche composte per Labra confluirono in gran parte in “Sisäinen solarium”, pubblicato nel 2000. Pur mantenendo l’impronta folk-cameristica – si ritrovano la fisarmonica di Kimmo Pohjonen e le percussioni etniche di Teho Majamäki, insieme a cori maestosi e inserti di armonium – il disco ha un respiro ancora più ampio e ambizioso. L’intento, nelle parole di Alanko, è quello di creare una musica profondamente finlandese ma al contempo universale, capace di toccare anche chi non comprende i testi. Non a caso l’album si apre con un brano corale avvolgente (“Kirskainen hyvätyinen”) e contiene perfino un’ironica traccia fantasma di un minuto di silenzio (“Minuutin hiljaisuus”) a suggellare l’esperienza. “Sisäinen solarium” conferma il coraggio artistico della fondazione, guadagnandosi nuovamente la vetta della classifica e la certificazione d’oro in Finlandia. Tuttavia, malgrado le ambizioni internazionali di Alanko, il progetto Labra/Solarium rimase un fenomeno circoscritto alla scena finlandese. Sul fronte interno, va segnalato un primo avvicendamento nella formazione: dopo l’uscita dell’album, lo storico bassista Jussi Kinnunen lasciò il gruppo (era con Alanko dai tempi dei Sielun Veljet), sostituito da Jarno Karjalainen – un cambio che anticipa le trasformazioni a venire.
Nel 2000, a quasi vent’anni dallo scioglimento degli Hassisen Kone, la raccolta “Tarjolla tänään” balzò direttamente al primo posto in classifica: segno di un affetto popolare mai sopito e di una memoria collettiva che continua a considerare la band una delle più vive della storia del rock finlandese.

Il grande freddo orchestrale

alankoismohallanvaarapromojuliste70cmx90cmjuliste12Con “Hallanvaara” del 2002, Ismo Alanko Säätiö spinse il proprio approccio al culmine, realizzando l’opera più imponente e sfaccettata della sua storia. Per l’occasione il musicista compose tutte le canzoni, ma ne affidò la realizzazione a un’ampia squadra di collaboratori, includendo due ensemble d’archi esterni diretti da Arttu Takalo e Ville Kangas a rinforzare gli arrangiamenti. La formazione subì ulteriori cambi: il nuovo bassista Jarno Karjalainen fece qui il suo esordio in studio, dopo l’uscita di Jussi Kinnunen. Ogni pezzo venne affidato ad arrangiatori diversi, così da ottenere una tavolozza orchestrale variopinta e imprevedibile (tra gli strumenti utilizzati spuntò anche una sega musicale).

Il titolo “Hallanvaara” (“Pericolo di gelo”) va inteso anche in senso metaforico: nelle liriche viene evocata la minaccia strisciante di un “gelo” interiore – burnout, esaurimento, depressione – che incombe sulla vita quotidiana. L’album attraversa generi e atmosfere con sorprendente disinvoltura, ma senza perdere coesione. Il brano d’apertura “Risteys” (letteralmente “incrocio”) si presenta come una ballata sobria e malinconica. Di tutt’altro tenore è “Suurenmoinen hautajaissaatto”, che su una ritmica sintetica incalzante innesta cori magniloquenti e costringe Alanko a spingersi fino al falsetto nei ritornelli. Ancora diverso lo scenario di “Maailmanparantaja”, brano che parte con toni cameristici sommessi per poi sfociare in un esplosivo refrain dalle tinte flamenco: una scelta inaspettata ma efficace, in linea con il testo che tratteggia il bisogno di trovare significato e amore nel caos del mondo. La seconda parte del disco non è da meno in inventiva. Il singolo “Paratiisin puu”, impreziosito dai voli di flauto di Pentti Lahti, offre un morbido intreccio pop rock d’atmosfera che gli garantirà lunga vita nelle scalette concertistiche di Alanko. Di segno opposto la conclusiva “Hallanvaara”, una lenta e gelida ballata sorretta quasi esclusivamente dal pianoforte di Ahti Marja-Aho e dai cupi fraseggi di corno francese di Erja Joukamo-Ampuja. È un epilogo austero, che cristallizza in musica il “gelo” emotivo al centro dell’opera.

Con questo album Alanko firma forse il capitolo più sofisticato della sua discografia, riuscendo nell’impresa di coniugare ambizione artistica e fruibilità pop senza scadere nel cerebralismo. Non fu però accolto unanimemente: molti ascoltatori lo trovarono “difficile” e volutamente arty, lontano dall’immediatezza folk-pop dei predecessori. Non a caso fu il primo disco della Säätiö a non raggiungere la vetta delle classifiche, fermandosi al numero 2. Riascoltato oggi, “Hallanvaara” appare come l’ultimo apice della parabola di Alanko, benché nei lavori successivi l’autore continuerà a esplorare nuove direzioni, anche con buoni risultati.

“Hallanvaara” segnò la fine di un’era per la fondazione. Già durante le sessioni di registrazione, due pilastri del sound originario – Kimmo Pohjonen, con la sua fisarmonica avant, e il polistrumentista Teho Majamäki – avevano abbandonato la formazione per dedicarsi ad altri progetti. Sebbene Pohjonen compaia come ospite in “Peilikuva”, il nucleo del gruppo ormai è cambiato: accanto ad Alanko (voce, pianoforte, chitarra, persino fischio e violoncello all’occorrenza) si trovano Samuli Laiho alla chitarra acustica, Jarno Karjalainen al basso e contrabbasso, e Marko Timonen alla batteria. Il processo di allargamento orchestrale di “Hallanvaara” sembra dunque quasi compensare l’assenza dei vecchi compagni.
L’uscita di “Hallanvaara” fu accompagnata da un nuovo tour. Per tradurre dal vivo quei brani sontuosi, Alanko scelse di affiancare alla Säätiö il quartetto d’archi di Ville Kangas, creando in scena un suggestivo “doppio ensemble”: da un lato la band rock, dall’altro il quartetto classico. I concerti del 2002 alternarono così i pezzi di “Hallanvaara” a rivisitazioni cameristiche di brani dal repertorio storico di Alanko. Dopo la tranche orchestrale, nella seconda metà del 2002 la Säätiö tornò temporaneamente a una dimensione più raccolta, esibendosi anche in club rock e festival con il solo quintetto elettrico. Una parte di questa stagione venne immortalata nel live album “Elävää musiikkia” (2004).

Quando la Fondazione si scioglie

4364742n2Il biennio 2003–2004 rappresentò una fase di transizione e ulteriore evoluzione per la fondazione, che continuò a mutare e con essa anche la direzione musicale. Il violinista Ville Kangas rimase ancora per un po’ nell’organico, ora in veste di polistrumentista – violino e tastiere – ma senza il suo quartetto. Intanto il chitarrista storico Samuli Laiho lasciò nel 2003 e al suo posto entrò Timo Kämäräinen. Alanko portò la Säätiö a esibirsi in contesti trasversali: nel 2003 il gruppo suonò tanto in festival di musica classica e rassegne di poesia quanto in fiere del vino e nei grandi raduni rock estivi come il Ruisrock. Questa ecletticità conferma lo statuto aperto del progetto, sempre in bilico fra cultura alta e popolare.

La vera sterzata arrivò con il quarto album in studio, “Minä ja pojat” (“Io e i ragazzi”), pubblicato nell’estate 2004. Come suggerisce il titolo colloquiale, Alanko riscopre qui il piacere di fare musica con la band, con un approccio più diretto e terrigno. “Minä ja pojat” sorprende per la sua impronta rock immediata: chitarre elettriche in primo piano – addirittura tre, dato che il produttore Riku Mattila venne reclutato come terzo chitarrista durante le sessioni – ritmiche incalzanti e un’energia quasi garage. Non mancano brani riusciti e momenti di forza, ma nel complesso l’album risulta meno innovativo rispetto ai predecessori. Alanko stesso parlò di un tentativo di riconnettersi con l’impeto punk dei suoi esordi, richiamando modelli contemporanei dell’alternative rock più duro come i Queens Of The Stone Age o i System Of A Down. Il disco incontrò comunque il favore del pubblico, raggiunse la vetta della classifica e ottenne la certificazione d’oro: un successo che, pur tra i segnali di una certa stanchezza creativa, conferma la vitalità della Säätiö.

Nello stesso 2004, al Kulttuuritalo di Helsinki, Alanko partecipò al concerto-tributo per la scomparsa di Gösta Sundqvist (1957–2003), carismatico leader dei Leevi And The Leavings, autori di un pop rock malinconico e ironico amatissimo in Finlandia. Sul palco, insieme al fratello Ilkka e a Cyde Hyttinen (cantautore originario di Joensuu, figura storica della scena rock finlandese), Ismo si impose come il vero mattatore della serata. I tre chiusero il concerto interpretando “Unelmia ja toimistohommia”, “Teuvo, maanteiden kuningas” e “Pohjois-Karjala (Skandinavia Mix)”.

Il capitolo finale della fondazione arrivò con “Ruuhkainen taivas” del 2006. Siamo ormai lontani dai saloni acustici di “Pulu”: l’album prosegue sul solco tracciato dal predecessore, coniugando il suono vigoroso di una rock band a tre chitarre con la consueta sensibilità melodica di Alanko. Pur offrendo brani compatti e coerenti, il disco si limita a consolidare una formula più tradizionale, con qualche eco degli Hassisen Kone e del primo Alanko solista. Il titolo, traducibile come “cielo affollato”, sembra alludere a un firmamento carico di suoni ed emozioni contrastanti, ma l’impatto complessivo resta quello di un lavoro più di chiusura che di svolta. Anche la critica nazionale ne sottolineò la maturità e la coesione, ma senza l’entusiasmo riservato ai dischi più audaci. Le vendite rimasero comunque buone e l’album raggiunse la seconda posizione in classifica.
Nel 2007 Alanko decise di sciogliere ufficialmente la Säätiö, ponendo fine a una stagione creativa durata quasi un decennio.

Ismo Alanko Teholla: Il suono della sottrazione

ismo_6h5wk2Dopo lo scioglimento della fondazione, Alanko scelse di ripartire in una direzione radicalmente diversa. Non più un collettivo numeroso e teatrale, ma un duo minimale: al suo fianco chiamò Teho Majamäki, polistrumentista già protagonista delle prime stagioni della Säätiö, noto per la capacità di suonare strumenti tra i più diversi – vibrafono, marimba, tabla, armonium e oggetti esotici raccolti durante i suoi viaggi. L’idea fu quella di eliminare ogni orpello e tornare all’essenza, spogliando le canzoni fino al nucleo per poi rivestirle di timbri sempre nuovi. Nacque così il progetto Ismo Alanko Teholla, che sin dal nome (“con Teho”) sottolinea la natura simbiotica della collaborazione.

Il primo album, “Blanco Spirituals” (2008), colpisce per la formula scarna ma mutevole: Ismo Alanko e Teho Majamäki costruiscono un universo sonoro acustico completo utilizzando una strumentazione inusuale e una scrittura attenta agli equilibri. Nonostante l’organico ridotto, gli arrangiamenti risultano pieni e strutturati, grazie all’uso ingegnoso di sovrapposizioni, pattern percussivi intricati e impasti timbrici originali. L’atmosfera generale oscilla tra spiritualità laica e pulsazione tribale, con qualche richiamo al folk finlandese. Ogni brano conserva una forte identità musicale, spesso giocando con contrasti tra dolcezza melodica e urgenza ritmica. In particolare “Kuohuissa kahden maailman” o “Rakkaus on ruma sana” – ripresa e trasformata rispetto alla versione di “Pulu” – mostrano la capacità del duo di fondere il passato di Alanko con un presente radicalmente nuovo, in cui la fragilità melodica incontra soluzioni ritmiche spiazzanti. L’album venne accolto con favore dalla critica e sorprese anche dal punto di vista commerciale, debuttando al primo posto in classifica: segno dell’affetto che il pubblico finlandese continua a riservare a Alanko anche di fronte a un progetto di apparente austerità.

La dimensione dal vivo divenne il vero terreno d’espressione del duo. I concerti degli Ismo Alanko Teholla furono concepiti come riti in cui le canzoni cambiano di sera in sera, arricchite da improvvisazioni, strumenti portati sul palco da ogni angolo del mondo, trovate teatrali e interazioni dirette col pubblico. Nonostante siano solo in due, Alanko e Majamäki riempiono lo spazio con un ampio arsenale di strumenti e la loro intesa, frutto di anni di collaborazione e di una curiosità musicale condivisa. Non è un caso che nel 2009 venne pubblicato, solo in formato video, il live “Lava”, che documenta questa esperienza: un disco che non si limita a riproporre i brani in versione dal vivo, ma li reinventa.

Il percorso proseguì con “Onnellisuus” (2010), secondo e ultimo album in studio del duo che segna un netto cambio di rotta. Il duo si allontana dall’essenzialità per abbracciare una produzione più densa, stratificata e moderna. I brani esplorano un pop-rock raffinato, arricchito da sintetizzatori, effetti, chitarre elettriche e batterie più decise. Le melodie sono immediate e costruite per coinvolgere, i ritmi spesso incalzanti. Rispetto a “Blanco Spirituals”, le sonorità sono più brillanti, cariche e levigate. Gli arrangiamenti privilegiano un “wall of sound” controllato, dove ogni spazio è colmato da strati sonori. Gli elementi etnici e acustici vengono integrati in un contesto più radiofonico e accessibile. L’equilibrio tra energia e riflessione resta, ma il tono è più estroverso e aperto. Pur mantenendo coerenza con il passato, “Onnellisuus” mostra un volto più lucido e ambizioso del progetto. L’album consolida la forza del duo e raccoglie recensioni positive, raggiungendo la quarta posizione in classifica.

Con Ismo Alanko Teholla, l’autore attraversò una fase quasi ascetica della sua carriera: dopo il decennio barocco della Säätiö, scelse la via della spoliazione e del dialogo intimo, trovando nella riduzione numerica una nuova forma di libertà espressiva.

Un viaggio senza fine

ismoalanko1480x8322222Gli anni Dieci si aprono per Alanko con un rinnovato bisogno di riaffermare la propria voce solista. È un Alanko maturo, consapevole del proprio status di figura storica della musica finlandese, ma tutt’altro che incline ad accomodarsi. È l’inquietudine a tornare prepotente: se un tempo era lui a dettare la linea, ora si muove in un contesto più affollato, costretto a confrontarsi con linguaggi che cambiano rapidamente, ma con la stessa testardaggine di sempre. È l’immagine di un artista forse stanco, ma mai domo, ancora determinato a mettere tutto in discussione.

Il ritorno avviene con “Maailmanlopun sushibaari” (2013), un album che segna la risalita in cima alle classifiche, debuttando al numero 1, e ripropone un Alanko in chiave rock: chitarre elettriche, ritmiche solide, linee vocali incisive e testi intrisi di ironia e surrealtà. Il titolo – “Il sushi bar della fine del mondo” – evoca l’atmosfera del disco, sospesa tra disincanto e lucidità visionaria, con immagini che mescolano quotidiano e apocalittico. Alanko si concentra sull’essenza del songwriting, con canzoni solide, capaci di unire immediatezza e profondità realizzando uno dei sui dischi da solista migliori. Brani come “Vanha nuori”, “Vuoden turhin laulu” e “Tukahdutettu tango” mostrano un autore che recupera la centralità della melodia e del racconto. L’album è accolto con favore dalla critica, che ne sottolinea la freschezza e la capacità di suonare contemporaneo senza inseguire le mode.

Nel 2015 arriva “Ismo Kullervo Alanko”, album dal tono riflessivo che combina nuovi brani e riletture in una forma essenziale e coesa. Il suono resta ancorato al rock, ma si fa più sobrio e concentrato: arrangiamenti chiari, ritmi controllati e una vocalità in primo piano restituiscono l’immagine di un autore che riflette su se stesso senza cercare rivoluzioni. L’album raggiunge il sesto posto in classifica. 

Due anni dopo, “Yksin vanhalla” (2017) segna una svolta più intima: registrato dal vivo presso la Vecchia Casa dello Studente di Helsinki, il disco lo vede solo sul palco a reinterpretare classici del proprio repertorio in chiave acustica, con voce e chitarra come unici strumenti. Entrato al numero 2, mostra un autore disposto a spogliarsi di ogni artificio pur di restituire la verità delle proprie canzoni.

Tra il 2019 e il 2021 Alanko apre una nuova stagione sinfonica. “Minä halusin olla niin kuin Beethoven” (2021) – “Volevo essere come Beethoven” – dichiara fin dal titolo la sua aspirazione a misurarsi con l’idea di classicità. Il disco, di nuovo al numero 2, mette in scena arrangiamenti orchestrali e aperture liriche, con risultati affascinanti ma non sempre incisivi: il desiderio di grandezza sfiora a tratti il manierismo, e se la critica lo accoglie con rispetto, il pubblico non vi ritrova l’impatto emotivo dei suoi lavori migliori.

Nello stesso anno pubblica “Kaiken maailman kehtolauluja” (“Ninne nanne da tutto il mondo”) con l’Orchestra Sinfonica di Oulu: non una semplice raccolta di ninne nanne, ma un progetto che combina nuove composizioni e arrangiamenti orchestrali di brani dal suo repertorio. È un disco austero di contaminazione colta, che approfondisce il dialogo fra sensibilità rock e scrittura orchestrale.

Nel 2022 prende forma un nuovo sodalizio con Kimmo Pohjonen. Il duo esordisce con “Voice Of Northern Lowland”, opera sperimentale che fonde voce, fisarmonica, elettronica e improvvisazione in un linguaggio al confine fra performance sonora e sciamanesimo contemporaneo. Alanko trasforma la propria vocalità in strumento timbrico e si muove con naturalezza fra ambient, folk astratto e avanguardia nordica.

Il percorso più recente trova un compendio in “Me olemme ihme” (2023), ultimo lavoro in studio, che debutta al secondo posto. È un disco in cui convivono elementi rock, momenti orchestrali o comunque ricchi di coloritura (grazie agli strumenti a fiato, elettronica, arrangiamenti curati), e testi che oscillano fra introspezione e consapevolezza del mondo. 

Accanto ai dischi, gli ultimi anni sono segnati da importanti reunion. Nel 2011 i Sielun Veljet si ritrovano brevemente per pubblicare il singolo “Nukkuva hirviö”. Più clamoroso è il ritorno degli Hassisen Kone, celebrato nel 2022 con un tour per i quarant’anni dal debutto: lo show di Tampere richiama oltre 30mila spettatori, confermando un affetto popolare mai scemato. Sono momenti che sottolineano il peso storico delle sue band, che Alanko vive senza nostalgia, come occasioni di confronto con il proprio passato. Parallelamente non mancano collaborazioni speciali: dai concerti sinfonici con orchestre locali agli spettacoli teatrali, fino a tournée unplugged.

Il ritratto che emerge è quello di un artista incapace di fermarsi. Se un tempo era lui a imporre nuove forme, oggi è più spesso impegnato a rincorrerle, ma sempre con la stessa tenacia. È proprio questa ostinazione a definirlo: Alanko non diventa mai un “classico” nel senso consolatorio del termine, non si adagia sul repertorio, non trasforma i concerti in rituali di nostalgia. Anche quando si confronta con il passato – nelle reunion, nelle antologie, nelle rivisitazioni orchestrali – lo fa con energia attiva, ridefinendo di volta in volta il senso delle canzoni. Così, da pioniere si trasforma in esploratore instancabile, da voce di rottura a coscienza critica del rock finlandese. La sua figura rimane quella di un artista che vive il tempo come un elemento da sfidare: più che un custode della memoria, un viaggiatore che non accetta fermate. Guardando all’intero arco della carriera, il tratto distintivo appare evidente: dall’irruzione punk degli Hassisen Kone alla furia tribale dei Sielun Veljet, dalle visioni collettive dello Säätiö all’ascesi dei Teholla, fino agli ultimi dischi solisti e alle reunion celebrative, Ismo Alanko incarna l’idea stessa di trasformazione continua.Ogni decennio lo ha visto cambiare pelle, spesso in anticipo sui tempi, talvolta in rincorsa, ma sempre con la stessa urgenza: non fermarsi mai. E il fatto che, dopo quasi mezzo secolo di attività, riesca ancora a radunare un pubblico trasversale e appassionato è forse la prova più evidente che la sua musica continua a parlare al presente – un viaggio senza fine, capace di attraversare le generazioni.




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