Il medico di famiglia player della salute futura
C’era una volta il medico di famiglia, “il dottore” che veniva a visitare a casa, magari con la Seicento Fiat nelle campagne o con la 1100 in città. Ci sarà ancora, come snodo fondamentale di quella medicina del territorio che tutti vediamo come nuova frontiera dell’assistenza domiciliare per allentare la pressione sui Pronto Soccorso? Oppure resterà la figura di oggi, il medico che si allontana sempre più dalla cura per diventare solo un centro di “spaccio” delle ricette da portare in farmacia e poco più?
Purtroppo, è ormai frequente nel pensiero di molte persone che il medico di famiglia non sia più il principale riferimento per il proprio stato di salute, promuovendo la prevenzione delle malattie e guidandoci, al bisogno, verso diagnosi precoce e medicina specialistica, ma un mero prescrittore di ricette. Come cittadino e come medico, trovo umiliante questa valutazione e non condivido la polemica che vede contrapporsi la politica da un lato e le associazioni di categoria dall’altro, con un dibattito che è già diventato un dialogo tra sordi.
Ma ora c’è un tema di confronto concreto: è sul tavolo del ministro Schillaci la bozza della riforma per i medici di famiglia, elaborata dalle Regioni e visionata dal Ministero della Salute. L’obiettivo è quello di passare dalla figura storica del medico di famiglia, quella che nasce nel secondo Dopoguerra, ma che ha radici storiche e culturali molto più antiche in un modello di cura tradizionale e comunitaria, ad un ruolo di effettivo player di uno dei principali motori dell’assistenza domiciliare e del raccordo tra ospedale e territorio, cioè ben oltre l’erogatore di ricette attuale. Qui bisogna andare alla radice del conflitto, cioè muoversi (e deliberare per chi ne ha le prerogative) in base ad uno scenario demografico e sociale completamente diverso da quello di quando nacque il Servizio sanitario nazionale, con l’invecchiamento della popolazione, da una parte, la necessità di curare la popolazione degli immigrati che aiutano il Paese in tanti lavori (a cominciare dall’assistenza casalinga agli anziani) e la fortissima specializzazione della medicina moderna, dall’altra. Da questo punto di vista, l’unico che conta, la polemica sul ruolo del medico di medicina generale altro non è se non il riflesso di un conflitto profondo tra due modelli di sanità: uno più tradizionale e basato sulla persona, l’altro più centralizzato e basato sulla singola prestazione. Questo scontro tocca temi come l’identità professionale del medico, l’organizzazione del territorio, i diritti del cittadino-paziente.
I limiti della medicina del territorio esplodono all’arrivo della pandemia: le Regioni sono costrette a prendere atto del fallimento e per offrire assistenza ai cittadini tutti i giorni, dalle 8 alle 20, nascono le Case di Comunità, strutture pubbliche da costruire entro il 2026 e finanziate con 2 miliardi di euro del Pnrr; per funzionare, però, ci devono lavorare i medici di famiglia e, quindi, nel 2022 il governo dell’epoca propone un cambiamento per garantire, seppur con un rapporto di para-subordinazione, 38 ore di lavoro settimanali: 20 nei propri studi e 18 nelle Case della Comunità. Queste disposizioni non diventano mai legge e, infatti, gli accordi attuali garantiscono dalle 5 alle 15 ore negli studi, a seconda del numero di pazienti, e 6 nelle Case della Comunità.
Le Regioni, intanto, hanno lavorato a una riforma che potrebbe cambiare radicalmente il rapporto tra i medici di famiglia e il Servizio sanitario nazionale.
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