Salute

I condannati in tv: professarsi innocente non basta

di Rosamaria Fumarola

Il seguito che alcuni casi di cronaca nera godono nel nostro paese, anche quando esistono sentenze passate in giudicato e pronunciate “ogni altro ragionevole dubbio” è dovuto ad una componente di mistero fomentata spesso dai condannati e dai loro difensori. È un po’ quello che mutatis mutandis (mi si perdonerà l’accostamento forse un po’ irrispettoso) accade quando il fedifrago nega ad oltranza il proprio tradimento nei confronti della moglie, anche in presenza di evidenze che lo inchiodano alle proprie responsabilità. Costui sa bene infatti che professarsi innocente insinua comunque un dubbio in chi ascolta, il dubbio che ad essere accusato sia una persona incolpevole.

È proprio in questo gioco del rilancio della palla delle responsabilità nel campo avversario, attraverso un sapiente uso delle conseguenze psicologiche del dubbio, che si possono ottenere dei risultati interessanti, sia in caso di effettiva colpevolezza, che di estraneità ai fatti. Gli sviluppi giudiziari recenti dell’assassinio di Chiara Poggi bene lo testimoniano e con essi le vicende relative alla morte di Yara Gambirasio ed alla condanna di Bossetti, infondo aleggiano ancora nell’opinione pubblica con una tara, quella che ad essere stato condannato possa essere stato appunto un innocente.

Non affronterò qui le questioni che la procura sta vagliando circa la posizione di Andrea Sempio o di altri nel caso di Garlasco e di cui ampiamente siamo informati (fino al disorientamento) dai nostri media. Meno ultimamente si era invece parlato di Bossetti e delle perplessità che alcune valutazioni strettamente tecniche sul suo DNA avevano sollevato. Anche in questo caso il fumus persecutionis nei confronti del condannato aveva sospeso il giudizio di tanti, nonostante la prova del DNA sia considerata la prova che più e meglio di altre è in grado di attribuire responsabilità in merito al compimento di un reato e che in questo caso è stato trovato in quantità rilevante sul corpo della povera Yara. Il fatto che il DNA fosse di Bossetti ha consentito una sua condanna appunto “oltre ogni ragionevole dubbio”. E invece il dubbio, benché irragionevole, è brandito come un’arma preziosa da Bossetti.

Esistono poi delle varianti che possono decretare il successo, l’efficacia del dubbio e spesso riguardano proprio la sua comunicazione. Prova ne sia l’intervista che Bossetti ha di recente rilasciato alla conduttrice di Belve, Francesca Fagnani. Se infatti personaggi come Stasi o Sempio, pur prestandosi a rispondere alle domande anche più imbarazzanti ed impudiche della stampa, sono risultati puntuali nelle argomentazioni e dunque non hanno liberato l’ascoltatore dai dubbi, il condannato per la morte atroce di Yara – a mio avviso – è risultato molto deludente nel convincere il pubblico della propria estraneità ai fatti.

È sembrato utilizzare un sistema di interpretazione basico, che sarebbe stato efficace più per convincere un amico incontrato al bar, che non un pubblico ormai edotto a sufficienza circa i meccanismi della giustizia e le tecniche investigative di cui si avvale la polizia scientifica.

Insomma non basta dichiararsi innocenti, bisogna essere convincenti e servirsi al meglio di ogni strumento di comunicazione di cui si sia a disposizione. Interviste come quella di Bossetti finiscono con l’essere degli autogol per i diretti interessati se non si è dotati di una certa abilità nel sottrarre all’interlocutore ed al pubblico le proprie certezze, creando scenari magari improbabili ma sempre possibili.

Se la tragedia della morte di Yara si è rivelato da un punto di vista investigativo e giudiziario una vera sfida, non altrettanto può dirsi per le doti del condannato, la cui banalità nell’argomentare circa le vicende che lo hanno riguardato è emersa in tutta la sua deludente evidenza.

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