I progressisti hanno abbandonato il loro progetto di società inclusiva: dovremmo tornare a Pericle
di Michele Sanfilippo
Quello che mi fa più rabbia nell’osservare la deriva dei partiti progressisti di tutto il mondo occidentale (e l’Italia non fa certo eccezione) non è solo l’aver sposato la visione economica neoliberista ma l’aver abbandonato il progetto di società che un tempo era la loro ragion d’essere. Ho visto recentemente il film (tratto dal bellissimo libro di Viola Ardone) Il treno dei bambini e ho trovato commovente che un partito politico si mobilitasse per fare in modo che bambini davvero indigenti e senza prospettive potessero trascorrere qualche mese presso famiglie in grado di dare loro cibo, alloggio e in qualche caso un’idea di futuro.
La mia non è certo nostalgia per il Partito Comunista, soprattutto considerando la sudditanza che negli anni ’50 c’era verso l’Unione Sovietica e la sua concezione totalitaria dello Stato. È, piuttosto, nostalgia per un’idea di politica come mezzo per realizzare un mondo dove i più deboli possano trovare nelle istituzioni un supporto per accedere all’ascensore sociale che non è solo un mezzo di giustizia sociale ma è anche, e soprattutto, uno strumento che arricchisce la società nel suo complesso perché consente ai migliori di emergere a prescindere dal loro punto di partenza.
Questa è una visione della politica che si colloca agli antipodi di quella di coloro che hanno sposato il progetto neoliberista, la cui idea di società è riassunta, come meglio non si potrebbe, dalla famigerata frase di Margaret Thatcher che affermava, senza pudore, che: “Non esiste la società. Esistono gli individui, uomini e donne, e le famiglie”. Insomma “arricchitevi” e “basta tasse” e chi non ce la fa, si fotta.
In quest’angusta visione tutta la vita di un essere umano si esaurisce in un ciclo infinito e insensato che vede alternarsi desiderio di novità, consumo, desiderio di novità, consumo…
Non m’illudo che cercare un senso al di fuori del perverso meccanismo consumista possa davvero dare un senso all’esistenza. Questo è un problema a cui pensatori molto più capaci di me hanno provato a dare risposta. Ora però si tratta di sopravvivenza. In questo mondo ormai globalizzato le sfide che ci attendono, a partire da quella relativa al cambiamento climatico, richiedono risposte collettive. Pensare di salvarsi da soli non è solo un’illusione, è un suicidio personale e collettivo.
Sarebbe bello che a sinistra si provasse ad uscire dalla prigione dell’insensata dittatura del pensiero economico in cui ci si è autoreclusi e si tornasse alle proprie radici elaborando un progetto di società inclusiva, attenta ai bisogni dei più deboli e che si sforzi di preparare per le nuove generazioni un mondo migliore di come l’abbiamo trovato. Non sono poi idee così nuove. Basterebbe attenersi all’incipit della lettera di Pericle agli ateniesi: “Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così. Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento. Qui ad Atene noi facciamo così.”
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