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Youth Lagoon – Rarely Do I Dream: Visioni oniriche e ricordi nostalgici di vita quotidiana :: Le Recensioni di OndaRock

Con il passare degli anni la musica di Youth Lagoon, progetto principale di Trevor Powers (Idaho, 1989), ha subito mutazioni consistenti. Le accattivanti melodie bedroom pop del debutto, “The Year Of Hibernation” (Fat Possum/Lefse, 2011), hanno presto lasciato spazio alle atmosfere psichedeliche in stile Animal Collective di “Wondrous Bughouse” (Fat Possum, 2013), segnando il passaggio dallo Youth Lagoon intimista a quello più cosmopolita. In entrambi i casi l’accoglienza della critica specializzata in produzioni indie-alternative è stata buona, se non entusiastica. A distanza di due anni è arrivato l’album di transizione, “Savage Hills Ballroom” (Fat Possum, 2015), quello in cui la voce imberbe e quasi androgina di Trevor Powers ha iniziato a farsi nitida, acquisendo la dignità di un elemento autonomo rispetto agli strumenti di accompagnamento. Messi da parte l’atmosfera ovattata da cameretta e i deliranti viaggi lisergici, il suono si è fatto pulito e affinato, conformandosi a un pop più diretto, ma comunque aperto a inserimenti elettronici talvolta anche aggressivi e disturbanti.

Poi il vuoto. Nei successivi otto anni Powers si è dedicato a progetti paralleli dichiarando finita per sempre la storia di Youth Lagoon. Una profonda crisi psico-fisica ha invece reso possibile l’impronosticabile, ossia la resurrezione di un’entità artistica che si è ripresentata sotto forme inedite. “Heaven Is A Junkyard” (Fat Possum, 2023), infatti, con le sue atmosfere delicate, in punta di plettro e di bacchette, ha posizionato per la prima volta Youth Lagoon nella cartina del soft-rock americano.
Dal punto di vista sonoro, l’ultimo “Rarely Do I Dream” segue il solco tracciato dal predecessore, avvalendosi anche in questo caso della produzione di Rodaidh McDonald (Jamie xx, Sampha, Daughter, King Krule, XX). Rimane presente anche quel senso di turbamento e di inquietudine tipico della poetica di Powers sin dall’esordio, ma stavolta ammantato da un’atmosfera domestica, praticamente privata. Il ritrovamento di una scatola di scarpe contenete Vhs familiari è infatti la fonte da cui sgorga l’ispirazione per la scrittura delle dodici nuove tracce.

Zucche di Halloween che si accendono all’imbrunire di un ottobre statunitense, visioni di animali quasi mitologici – come nel claustrofobico e sinistro incedere dell’elettronica “Speed Freak” – la palla che rotola sul giardino, i bambini che giocano a fare i detective vicino alle rotaie di un tratto ferroviario dimenticato da Dio, in qualche angolo dell’Idaho, come in un libro di Stephen King. Queste sono le immagini realistiche, ma anche po’ oniriche e a tratti visionarie, che i brani di “Rarely Do I Dream” custodiscono con gelosa nostalgia. Il tutto è armoniosamente condito da alcuni passaggi audio estratti, in maniera quasi archeologica, dai nastri originali della famiglia Powers, che per certi versi ricordano l’approccio narrativo dei Killers in “Pressure Machine”, dove le voci autentiche delle anime di Nephi, nello Utah, città natale di Brandon Flowers, introducevano storie di profonda provincia americana. In “Rarely Do I Dream”, tuttavia, la città rimane uno sfondo, il contesto in cui Powers è cresciuto insieme alla sua numerosissima famiglia e in cui la fenomenologia musicale del ragazzo americano prende forma. L’epicentro della sua arte è invece nelle percezioni, nelle visioni, nei ricordi e nei sussulti emotici e psichici dell’autore, accompagnati da un suono mai così curato, sfaccettato e ambizioso nella storia di Youth Lagoon.

Nell’ultimo lavoro di Powers ci sono l’intuizione melodica – soprattutto nella prima metà del disco, come in “Gumshoe (Dracula From Arkansas)” e “Football” – la ripetizione, la delicatezza dei momenti più jazzy, le sinistre incursioni elettroniche e talvolta una tensione quasi cinematografica, tipica di certe pellicole americane anni Novanta, come nella conclusiva “Home Movies (1989-1993)”, dove la voce di mamma Powers invita il piccolo Trevor a ripetere a favore di telecamera una frase che probabilmente racchiude il senso di quasi quaranta minuti di musica: “This is the Trevor’s story”.
Dalla cameretta al mondo, dal mondo al paese, dal paese alla casa di famiglia: è questa la parabola di Youth Lagoon, meteora del panorama indie che per nostra fortuna non si è mai persa, ma che anzi è diventata adulta e, ascoltando il suo ultimo disco, così in alto non era mai andata.

15/06/2025




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