Vita da testimone di giustizia: «Pensavo che il mio nemico fosse la mafia e non lo Stato»
La vita si è azzerata. Buio pesto. I sogni svaniti. Aveva solo 24 Giuseppe Carini quando decise di sfidare Cosa Nostra e affidare la sua esistenza allo Stato. Dobbiamo andare indietro di oltre trent’anni. Quando i mafiosi ammazzavano senza pietà. Per i motivi più futili. Usavano le rivoltelle per chiudere la bocca a chi voleva cambiare il volto dell’Isola e “salvarla” dal veleno della piovra. Carini è uno dei giovanotti di Brancaccio che ha conosciuto Don Pino Puglisi. Faceva parte del gruppo “3P”, anche se il fascino dei picciotti del feudo del “papa” Michele Greco lo sentiva addosso. Ma il sacerdote riuscì a rivoltare l’anima di Giuseppe come un calzino. Grazie alla testimonianza di Carini gli assassini del beato palermitano sono stati condannati. I fratelli Filippo e Giuseppe Graviano furono i mandanti di un omicidio vile. Perché la mafia è vile. È codarda.
Giuseppe Carini ha scelto di essere un testimone di giustizia. Ha cambiato identità e casa tante volte. Troppe. È entrato nel programma di protezione che era stato creato per i collaboratori di giustizia, per gli ex mafiosi. «Sapesse quante cose dobbiamo sopportare io e i miei compagni di viaggio», dice Giuseppe Carini al telefono. Una mattina presto, mentre attorno c’è silenzio. Carini ha voglia di urlare: quello Stato a cui ha affidato la vita in qualche modo lo ha tradito. E più volte. «Ci considerano arroganti – aggiunge – alcune volte esosi. Questo solo perché vogliamo solo i nostri diritti. Pensavo che il mio nemico fosse la mafia e non lo Stato». Queste ultime parole nascono da anni di battaglie contro tanti e troppi cortocircuiti nel sistema di protezione che Carini ha vissuto. E continua a vivere. L’ultimo schiaffo è arrivato poco più di un mese fa.
Ma cerchiamo di fare ordine. Intanto una cosa è bene chiarirla: «Mai un solo secondo mi sono pentito della scelta che ho fatto. Ma è paradossale che un testimone di giustizia non sia tutelato dalle Istituzioni». Carini di falle nel sistema ne ha trovate diverse da quel maledetto 15 settembre 1993, il giorno in cui fu ammazzato Pino Puglisi. Carini, all’epoca studente di Medicina, partecipò all’esame autoptico del sacerdote, proclamato Beato nel 2013. Giuseppe fu uno dei primi ragazzi che si recò dal sostituto procuratore Luigi Patronaggio: gli raccontò che il delitto del prete era organizzato da Cosa nostra. Per quella scelta fu rinnegato dalla famiglia, ma lui se n’è creata una nuova. Quella vera.Quel giorno che decise di andare in procura a Palermo ha deciso di diventare un fantasma. Lo Stato lo ha protetto. Ma non del tutto.
L’ultima assurdità della sua seconda vita riguarda il percorso contributivo previdenziale. Il testimone di giustizia è stato costretto a lasciare tutto. Anche il lavoro. E fino a quando non c’è stata la legge del 2014 con cui la Regione Siciliana ha aperto le porte alle assunzioni nella pubblica amministrazione ai testimoni di giustizia, questi non avevano alcuna possibilità di poter avere un impiego. Nessun lavoro, nessun contributo versato all’Erario. Anni e anni di buco che aprono una ferita nei confronti di chi ha già pagato a caro prezzo la scelta di ribellarsi contro i mafiosi. «Un giorno quando non lavorerò più avrò una pensione da fame. Come vivranno i miei cari? Cosa lascerò in eredità ai miei familiari?», queste sono le domande “legittime” che arrovellano Carini. Che ha sempre rispettato le regole stringenti previste dal «contratto» sottoscritto col Ministero dell’Interno. Quegli anni passati “sotto tutela” senza un minimo di versamenti contributivi pesano nel conteggio di chi tra qualche anno dovrà andare in pensione. Carini, prima di essere assunto dalla Regione Siciliana, ha svolto qualche lavoretto da precario. Anche perché se nel tuo curriculum vitae ci sono anni e anni di non occupazione gli imprenditori si pongono delle domande. E sono pochi quelli che assumono.
Il futuro? Se le cose non cambieranno il destino è segnato. «Sarò un nuovo povero – dice Carini con un pizzico di amarezza – mentre aiutavo la giustizia nessuno ha pensato a versare i miei contributi». La scoperta è stata fatta quasi per caso. Carini ha deciso di iniziare a fare i conteggi per la pensione. Si è messo lì a guardare il suo status contributivo nel portale dell’Inps, ha effettuato una proiezione ed è saltato dalla sedia. La stessa sorte toccherà anche a molti dei suoi “compagni di viaggio” dell’associazione testimoni di giustizia, di cui Ignazio Cutrò è presidente. I testimoni di giustizia sono una cinquantina circa in tutta Italia, fino alla relazione del 2023 erano poco meno di 80. Sembra un profilo in via di estinzione. Solo questo dovrebbe fare riflettere il Governo. «La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che afferma di voler fare di tutto per lottare contro la criminalità organizzata – dice Carini – lo dimostri con i fatti. Perché non prevede di stanziare le somme per coprire i contributi degli anni in cui siamo stati costretti a non lavorare perché stavamo denunciando i mafiosi».
Carini, così come altri compagni di viaggio siciliani – dal 2014 dopo l’approvazione dall’Ars della legge regionale per i testimoni di giustizia – è un dipendente della Regione Siciliana. Ma è “distaccato” in un altro ente della pubblica amministrazione: la sua nuova identità dovrebbe essere salvaguardata. Il condizionale è d’obbligo considerato che questa copertura è solo sulla carta. Perché qualche mese fa è arrivato un altro cortocircuito da parte del Governo nazionale. «La commissione centrale, con delibera del 16 aprile 2025, ha autorizzato l’interlocuzione diretta tra le amministrazioni ed il datore di lavoro per il flusso documentale inerente la posizione lavorativa. In considerazione di ciò il Servizio centrale non fungerà più da tramite tra le diverse amministrazioni, i dipendenti della Regione Sicilia dovranno quindi trasmettere le specifiche direttamente agli uffici o consegnarle al proprio ente di assegnazione». Tradotto dal burocratese: l’anonimato non sarà più garantito non essendoci più il “filtro” del servizio centrale di protezione. Le informazioni, con nome e città dove lavorano i testimoni di giustizia, saranno alla mercé del grande portale dell’amministrazione trasparente. Questo significa esporre i testimoni a rischi. Non dimentichiamo che la mafia non dimentica. Ed è sempre pronta a vendicarsi. «Io ho scelto di stare con lo Stato, ma adesso è lo Stato che ha scelto che non deve stare più con me. Ma io andrò avanti nelle mie battaglie e cercherò di far valere le ragioni di noi testimoni di giustizia. Basterebbe una legge, di poche righe, per versarci i contributi mancanti e farci vivere una vecchiaia dignitosa».