Visioni a 33 giri – Mountain Goats
Ci sono dischi a cui non puoi pensare di rivolgerti in un momento qualsiasi. Hanno la capacità di rivoltarti dalle viscere, ed è qualcosa per cui devi essere pronto. Devi averne davvero bisogno. Per questo è impossibile ascoltare “The Sunset Tree” come un sottofondo: ti costringe a guardare delle parti di te che di solito preferisci non guardare. Fino a quando non senti la necessità di affrontarle faccia a faccia. È allora che queste canzoni diventano indispensabili.
Per anni, John Darnielle non ha mai voluto mettere sé stesso al centro dei suoi brani. Almeno non direttamente. La formula dei Mountain Goats era fatta di racconti brevi a base di una ruvida bassa fedeltà, istantanee capaci di catturare la traiettoria di uno stato d’animo, registrate di getto su un registratore a cassette Panasonic. Poi, la grande occasione: un contratto discografico con la 4AD, uno studio di registrazione professionale, la possibilità di guadagnarsi da vivere con la musica.
Ma all’inizio le cose non vanno per il verso giusto: dopo due dischi, l’accoglienza è tiepida (nonostante il primo, “Tallahassee”, oggi sia riconosciuto da tutti come uno dei capolavori dei Mountain Goats). E a Darnielle resta solo un’ultima chance con l’etichetta britannica: “Ero convinto che il mio esperimento di vita da musicista fosse giunto al termine”.
“My sister called at 3 AM
Just last December
She told me how you’d died at last
At last”
(“Pale Green Things”)
Certi istanti aprono uno squarcio nella vita. Per Darnielle si tratta di una telefonata nel cuore della notte, con cui la sorella gli annuncia la morte del patrigno. Il passato si riaffaccia, come una maledizione a cui sembra impossibile sfuggire. Le ferite si riaprono, e l’unico modo che Darnielle conosce per provare a curarle è mettersi a scrivere. Con l’album precedente, “We Shall All Be Healed”, si era avventurato per la prima volta nel terreno del racconto autobiografico, confessando l’abuso di sostanze in cui era sprofondato da ragazzo. Ora si tratta di scavare nella storia che lo ha condotto fino all’orlo di quell’abisso.
Le canzoni di “The Sunset Tree” nascono così, per esorcizzare i demoni della memoria nelle notti insonni di un tour. “Written in Paris, Rotterdam, London, the back seat of a white van driving through Europe, and my upstairs room in Durham, North Carolina”, recitano le liner notes dell’album. “Mi sono detto: va bene, racconterò una storia vera in questo disco, perché probabilmente sarà l’ultimo che i Mountain Goats potranno mai registrare”. Una doppia urgenza capace di rendere ogni nota più impellente che mai.

“And down there in the dark
I could see the real truth about me
As clear as day”
(“You Or Your Memory”)
È proprio dall’oscurità di una camera d’albergo che prende le mosse il viaggio: uno specchio per guardarsi negli occhi, farmaci e alcol per far finta di non vedere il riflesso. “St. Joseph’s baby aspirin/ Bartles and Jaymes/ And you or your memory”. Un tu opprimente, da subito, è la presenza che sembra incombere su tutto, fino a togliere il respiro. Non c’è dubbio di chi si tratti: “Made possible by my stepfather”, annuncia la dedica del disco. Di notte, quando il morso dell’angoscia diventa più opprimente, la preghiera di “You Or Your Memory” si srotola su un ritmo lieve tra le pareti squallide del motel: “Lord, if I make it through tonight/ Then I will mend my ways/ And walk the straight path/ To the end of my days”.
È così che si apre “The Sunset Tree”. L’albero al tramonto del titolo sembra suggerire un’immagine di pace, ma già lì si nasconde qualcos’altro. Qualcosa che penetra sotto la pelle. Il riferimento è alla scena di un romanzo di Samuel Butler, “Così muore la carne”, pubblicato ai primi del Novecento: c’è un ragazzino che deve cantare un inno sacro davanti al padre, un inno che comincia con il verso “Come, come to the sunset tree”; il ragazzino, però, ha un difetto di pronuncia che lo fa incespicare proprio sulla lettera “c”; ogni volta, il verso esce sbagliato dalla sua bocca. Il padre lo costringe a ripeterlo ancora e ancora, in un crescendo di tensione insopportabile. Fino a che resta solo l’eco delle urla e la violenza sorda della punizione.
“Alright, I’m on Johnson Avenue in San Luis Obispo
And I’m five years old, or six, maybe
And indications that there’s something wrong with our new house
Trip down the wire twice daily”
(“Dance Music”)
La scena si sposta sotto il sole della California del Sud, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Il ragazzino, in questa versione della storia, si chiama John Darnielle. Ha cinque anni quando i genitori divorziano e deve trasferirsi con la madre e la sorellina in una nuova casa. Da un nuovo padre. La prima volta che la violenza irrompe attraverso la facciata ordinaria della vita familiare ha la forma di un bicchiere lanciato contro un muro, un’istantanea carica di premonizione raccontata in “Dance Music”. Ci sono le urla, c’è la paura. Poi, anche la violenza diventa parte della quotidianità.
“The Sunset Tree” è il diario di quella quotidianità. Intimo e crudo, senza sconti, da qualche parte tra la foga dei Neutral Milk Hotel e la letterarietà degli Hold Steady. Ma è anche molto di più: è la storia di come sia possibile arrivare vivi dall’altra parte, di come sia possibile trovare una speranza anche dove la speranza non c’è. Per questo riesce a risuonare nel profondo di chiunque porti le cicatrici di un trauma. Per questo il suo racconto diventa una parabola capace di parlare a tutti.
“I drove home in the California dusk
I could feel the alcohol inside of me hum
Pictured the look on my stepfather’s face
Ready for the bad things to come”
(“This Year”)
L’essenza di “The Sunset Tree”, in fondo, è tutta racchiusa in una canzone. Non c’è da stupirsi che sia diventata nel tempo l’inno per eccellenza dei Mountain Goats. Si intitola “This Year” e comincia con un sabato mattina, il rombo di un motore, una bottiglia di scotch, una sala giochi: l’illusione della fuga, quando sai già di non poter evadere dalla prigione. Perché la prigione è casa tua.
Le note del piano scandiscono l’andatura, basso e batteria sostengono il passo. Ma è la voce di Darnielle, febbrile e spiritata, a guidare la corsa verso il grido di un chorus che non accetta la resa: “I am gonna make it through this year/ If it kills me”. Il finale sembra già scritto (“The scene ends badly, as you might imagine/ In a cavalcade of anger and fear”), eppure c’è qualcosa di più forte del fato: la promessa del riscatto, la promessa di una liberazione che suona come una profezia biblica: “There will be feasting and dancing/ In Jerusalem next year”.
Durante le sessioni di registrazione, Darnielle deve fare ricorso all’alcol per sostenere l’impatto emotivo dei brani. Accanto a lui c’è lo storico compagno di viaggio Peter Hughes al basso (all’epoca unico altro componente fisso dei Mountain Goats), più Franklin Bruno al piano, Erik Friedlander al violoncello e John Vanderslice alla produzione. La loro alchimia dà vita a coloriture nuove per la musica dei Mountain Goats, unendo la brillantezza di uno slancio irresistibile all’intimità più delicata della confessione.
Il 2005, quando l’album arriva sugli scaffali dei negozi di dischi, è un anno d’oro per l’indie-rock più o meno esistenziale (da “Illinois” di Sufjan Stevens a “Blinking Lights And Other Revelations” degli Eels, da “Black Sheep Boy” degli Okkervil River a “The Mysterious Production Of Eggs” di Andrew Bird) e anche la band di John Darnielle trova finalmente il suo spazio: “Non è stato un botto improvviso. È stato solo quando siamo andati in tour che ci siamo resi conto che “This Year” stava diventando più famosa di quanto pensassimo”. Merito anche del video diretto da Andrew Bruntel, che mette in scena una sorta di home invasion in cui i membri della band vengono portati in una villetta e costretti a suonare per i loro rapitori, metafora perfetta di quel divincolarsi in una realtà intollerabile che rappresenta l’essenza del brano.
“If we live to see the other side of this
I will remember your kiss
So do it with your mouth open”
(“Dilaudid”)
Chi può capire davvero le ferite che teniamo nascoste? Non l’inconsapevolezza degli amici, non le buone intenzioni degli insegnanti. A volte finiamo per convincerci che solo chi dentro è spezzato come noi possa condividere quello che stiamo passando: “But down in your arms, in your arms/ I am a wild creature”, canta Darnielle sulla vibrante gravità di “Broom People”. E anche l’amore rischia di trasformarsi in una spirale di autodistruzione, mentre il bordone del basso accompagna la melodia disegnata dal pianoforte. Due macchine ad alto consumo emotivo, prima o poi, finiscono per annientarsi l’una con l’altra.
Se poi le relazioni disfunzionali si mescolano con gli oppioidi, inevitabilmente le cose diventano ancora più complicate. Sul violoncello solitario e incalzante di “Dilaudid” (un derivato della morfina, appunto) ogni bacio è l’ultimo appello di chi non sa se avrà ancora un giorno da vivere. L’acceleratore punta dritto verso il baratro, verso il collasso gravitazionale (“Collapsing Stars”, non a caso, è il titolo di una delle b-side di “Dilaudid”, danza agrodolce dell’implosione).
Il tono, appena partono le percussioni e la chitarra di “Dance Music”, da tagliente si fa leggero. Ma è solo un’apparenza: dietro le movenze vivaci c’è una strada senza uscita, e il disperato bisogno di non restare soli (“There’s only one place this road ever ends up/ And I don’t want to die alone”).
“And alone in my room
I am the last of a lost civilization
And I vanish into the dark
And rise above my station”
(“Hast Thou Considered The Tetrapod”)
Quando si sente qualcuno dire che la musica gli ha salvato la vita, di solito è solo un’iperbole. Ma non per John Darnielle: nel momento in cui il nulla sembra fagocitare ogni cosa, è la musica a tenerlo ancorato alla vita. La manopola del volume come ultima possibilità per cancellare la realtà, come in “Dance Music”. O le cuffie come camera del sogno, secondo l’immagine evocata da “Hast Thou Considered The Tetrapod” tra la solennità delle tastiere e gli accordi scabri della chitarra acustica: un crescendo drammatico in cui l’unica cosa indispensabile da proteggere dalla violenza è lo stereo, “the one thing that I couldn’t live without”. È da lì che viene la speranza del tetrapode evocato dal titolo, con il suo arcaismo dal sapore biblico: l’estrema possibilità di un salto evolutivo, come quello che ha portato i primi vertebrati dagli oceani alla terraferma (“One of these days/ I’m going to wriggle up on dry land”).
Nel frattempo, però, la realtà è una mano potente e implacabile, che fa sentire completamente annullati: “You erase me”, confessa Darnielle in una canzone dal titolo più esplicito che mai (“Song For My Stepfather”), eseguita solo dal vivo nel corso degli anni. Appartiene a quel canone apocrifo che fa da controcanto all’album, insieme ai brani di una raccolta di demo diventata un vero e proprio oggetto di culto per i fan, “Come, Come To The Sunset Tree”: su tutti, la trascinante “The Day The Aliens Came (Hawaiian Feeling)”, in cui il miraggio di un’invasione aliena diventa l’unica via per sovvertire lo stato delle cose. Come in un vecchio b-movie o in una puntata di “Visitors”, i nuovi amici arrivati dal cielo vaporizzano ogni angoscia (“The house behind me and the people in it/ Will all go up like steam in just a minute”); o meglio, vaporizzano proprio la razza umana con tutta la sua meschinità (“There won’t be any reason left to cry/ ‘Cause there won’t be any people left to cry for”).
“There’ll always be a few things, maybe several things
That you’re going to find really difficult to forgive”
(“Up The Wolves”)
Nell’immaginazione, la vendetta risolve tutto. Rimette le cose al posto giusto. Nella realtà, è tutto più complicato. La fantasia di vendetta, sugli accenti minacciosi di “Lion’s Teeth”, è semplice e spietata come la legge della giungla. La batteria non dà tregua, il violoncello fa da pungolo, ma alla fine il grande avversario è sempre lì, con la sua ombra a sovrastare tutto: “There’s this great big you/ And little old me”.
Allo stesso modo, lo srotolarsi ardente di “Up To Wolves” (arrivata improvvisamente al grande pubblico nel 2014, grazie a una scena della serie tv “The Walking Dead”) scaglia le sue maledizioni con un grido liberatorio: “I’m gonna bribe the officials/ I’m gonna kill all the judges/ It’s gonna take you people years/ To recover from all of the damage”. La verità, però – come ammette Darnielle – è che prima o poi arriva il giorno in cui si deve abbracciare la futilità della vendetta. “Just when that day is coming, who can say, who can say?”.
“Some things you’ll do for money
Some you’ll do for fun
But the things you do for love are going to come back to you
One by one”
(“Love Love Love”)
Che cosa accomuna il suicidio del re Saul e quello di Kurt Cobain, il tentativo di Sonny Liston di accecare Ali sul ring e l’assassinio della vecchia usuraia da parte del protagonista di “Delitto e castigo”? Perché Darnielle accosta questi momenti sulle note di “Love Love Love”, cuore pulsante di “The Sunset Tree”? “Some moments last forever/ But some flare out with love love love”. “Quello che ci frega è l’eredità dei poeti romantici”, spiega il songwriter americano. “Pensiamo all’amore come a una cosa che è sempre accompagnata dal suono dei violini. Secondo me invece avevano ragione i Greci, l’amore può anche distruggere tutto quello che incontra nel suo cammino”. Eccolo, il punto in cui le storie dei personaggi di “Love Love Love” si intrecciano con la storia personale di Darnielle. “Il mio patrigno amava la sua famiglia, eppure ci ha riservato spesso un trattamento orribile. L’amore non è una forza benigna e rassicurante. L’amore è qualcosa di selvaggio”.
Tra le punteggiature del piano e gli accordi morbidi della chitarra, la voce si assottiglia citando direttamente Paolo di Tarso: “Now we see things as in a mirror dimly/ Then we shall see each other face to face”. Se la vendetta è una via troppo facile, il perdono a volte sembra semplicemente impossibile. Ma nessuno è in grado di vedere davvero l’altro faccia a faccia, nessuno è in grado di comprenderlo fino in fondo: quello che possiamo fare è ripartire da quel riflesso incerto. E lasciare che la consapevolezza dell’alterità che ci separa cresca come un filo d’erba tra le crepe del cemento.
“Pale Green Things” – epilogo cameristico e quasi sussurrato che anticipa i Mountain Goats a venire, da “Get Lonely” in poi – parla proprio di questo. Parla di un pomeriggio alle corse dei cavalli insieme al patrigno, un momento quasi impossibile di tregua dall’angoscia; parla di quella telefonata che porta la notizia della sua morte, con un tragico senso di sollievo; parla di piante pallide e sbiadite, ma capaci di crescere nonostante tutto.
“May the peace which eluded you in life be yours now”, si trova scritto all’interno dell’album. Nella sventura non c’è nulla da amare, direbbe Simone Weil, eppure l’anima deve continuare ad amare lo stesso, o almeno a desiderare di amare. È l’unico modo per non arrendersi all’inferno, qui in terra. È l’unico modo per arrivare all’alba del nuovo anno che ci attende.
“All we have to do is find a way to make the next day happen.
The day’s coming, the day’s coming.
We will wait for that day together and cheer its dawn.”
(John Darnielle, 31/12/2020)
11/05/2025