Visioni a 33 giri – Eagles
In un’epoca in cui ogni anniversario viene celebrato con il massimo dell’enfasi, è passato colpevolmente sottotraccia (anche sulle nostre frequenze) quello di un disco che, mezzo secolo fa, ha scritto una delle pagine più significative della storia degli Eagles e del (soft) rock. “One Of These Nights”, pubblicato il 10 giugno 1975 dalla Asylum, è il quarto album in studio del gruppo statunitense, al tempo già piuttosto celebre grazie soprattutto al successo di “Desperado” (1973), ma ancora distante da quell’exploit commerciale che sarebbe arrivato grazie a questi nove brani e al successivo Lp “Hotel California” di un anno dopo.
In realtà, però, un antipasto di stardom era già arrivato qualche mese prima, a marzo del 1975, in formato 45 giri, grazie a “Best Of My Love”, la malinconica ballad inclusa nell’album “On The Border” dell’anno precedente, che proiettò gli Eagles per la prima volta in vetta alla classifica dei singoli americani, in un tripudio di chitarre a dodici corde, squillanti pedal steel e cori stratosferici. Fu con ogni probabilità proprio quell’assaggio di gloria a spingerli a osare di più, a uscire dalle placide praterie di “Desperado” per aprirsi al rock e agganciare un pubblico più vasto. E per farlo avevano appena acquisito un alleato prezioso: Don Felder, chitarrista dallo stile più marcatamente rock, entrato in organico durante le registrazioni di “On The Border”. Come spiegava il batterista-vocalist Don Henley in un’intervista del 1975 a Rolling Stone, metà della loro identità continuava a risiedere in quella vena dolce e rurale tipica delle band californiane, ma con “One Of These Nights” gli Eagles volevano rompere con la sindrome della ballata: “Con Felder possiamo davvero suonare rock – dichiarava Henley – Ha portato più grinta nel nostro suono, e il suo assolo nella title track è magnifico”.
A pagare il prezzo della svolta sarà Bernie Leadon, co-fondatore e anima più country-folk del gruppo, che abbandonerà la compagnia poco dopo l’uscita del disco – non prima di avervi lasciato più di un’impronta della sua classe, consegnando così ai posteri l’ultima opera con la formazione originaria degli Eagles al completo. Ma la storia del rock – si sa – è spesso brutale. Così sempre Henley, stavolta al Melody Maker, metterà a nudo senza troppi fronzoli il cuore della faccenda: “Leadon non ci aveva veramente mai provato con la chitarra rock’n’roll e non ha mai davvero capito come creare quel suono sporco. Inoltre, Felder sa suonare il banjo e il mandolino discretamente, quindi, quando Bernie se n’è andato, non abbiamo perso nulla da quel lato”. Più chiaro di così…
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Una di queste notti…
Così una di queste notti finisce che gli Eagles estraggono dal cilindro il colpo di genio. One Of These Nights. Una di quelle canzoni mutaforma, magiche perché inafferrabili nel loro groviglio inestricabile di stili. È (soft) rock, ma anche r’n’b, è soul-funk e disco music. È urbana, notturna, elettrica. Levigata ma inquieta, melodica ma sporca, con quell’assolo bruciante che era esattamente ciò che aveva in mente la band per uscire dalla palude. Un ibrido impossibile tra Motown e West Coast, tra Al Green e i Bee Gees. Riferimento tutt’altro che ardito quest’ultimo, se si considera che mentre stavano registrando l’album a Miami, gli Eagles condividevano lo studio proprio con la band dei fratelli Gibb e, secondo Henley, il pattern di basso-batteria “four-on-the-floor” del brano è un omaggio alla disco music. Per tacere di quei falsetti così vicini a quelli che gli anglo-australiani avevano messo a punto per la prima volta nel loro Lp “Main Course”, uscito proprio in quel periodo (maggio 1975), e che avrebbero consegnato alla storia nella colonna sonora di “Saturday Night Fever”.
È il basso di Randy Meisner, profondo e pulsante, ad aprire il sipario: un riff circolare e insinuante, quasi funk (scritto da Fender) che conferisce agli Eagles un’anima black inedita. Anche la batteria di Don Henley è calibrata con precisione con un andamento regolare ma sempre dinamico; ma la vera prodezza del batterista è (ancora una volta) l’interpretazione: col suo timbro caldo, dalle venature soul, asseconda alla perfezione il fascino ipnotico e notturno del brano, intrecciandosi sapientemente con Meisner, alle prese con le armonie alte nel ritornello. E poi c’è l’asso nella manica: la chitarra di Felder, che prima alimenta un groovefunky-disco e poi si lancia in un assolo monumentale, costruito su fraseggi blues-rock e sustain prolungati, con un suono distorto insolitamente corposo. Suggestivo anche l’uso del ritornello come un coro che si rinnova ogni volta con testo differente, interrotto dalla voce di Henley o dalla chitarra elettrica. Ne scaturisce una canzone spiazzante e avveniristica, per una band emersa sulla scia della tradizione country-rock. Anche le voci, stratificate in armonie eleganti, marchio di fabbrica del gruppo, si fanno meno solari, più cupe e sensuali. Ma è una sensualità filtrata dalla malinconia, come se il desiderio evocato fosse sempre sul punto di realizzarsi ma mai pienamente compiuto, in questa notte di sogni febbrili da inseguire sotto la luna piena.
You got your demons
And you got desires
Well, I got a few of my ownOh, someone to be kind to in
Between the dark and the light
Oh, coming right behind you
Swear I’m gonna find you
One of these nights
“Tutti noi abbiamo detto almeno una volta: ‘Una di queste notti farò qualcosa – conquisterò quella ragazza, farò i soldi, troverò quella casa’. Tutti abbiamo dei sogni, una visione che speriamo si realizzi. Quando accadrà dipende solo da noi”, commentava Glenn Frey, chitarrista-vocalist e co-autore del brano insieme a Henley, nonché suo più grande fan: “Su ‘One Of These Nights’ si è combinato tutto: l’amore per lo studio, il netto miglioramento nella scrittura delle canzoni, sia da parte mia che di Don. Abbiamo fatto un salto quantico con quella canzone, è stata uno spartiacque. È il mio brano preferito degli Eagles. Se dovessi sceglierne solo uno, non sarebbe ‘Hotel California’ né ‘Take It Easy’, ma proprio ‘One Of These Nights’”, dichiarerà orgogliosamente Frey, che purtroppo ci ha lasciato nel 2016.
Fu proprio Frey a iniziare il processo creativo componendo la parte musicale, mentre Henley si occupò poi del testo. Il chitarrista raccontava: “Mi sono seduto al piano e ho cominciato a suonare questa piccola progressione discendente in tonalità minore, e lui si è avvicinato e ha detto: ‘One of these nights’”. Da lì in poi, come spesso accadeva tra i due, la collaborazione si invertiva: Henley contribuiva alla musica e Frey si inseriva nei testi.
“One Of These Nights” è la canzone che più di ogni altra traghetta gli Eagles nel cuore dei Seventies, un decennio che stava perdendo l’innocenza e iniziava a convivere con le sue ombre. Sarà il secondo singolo della band californiana a raggiungere il primo posto nella classifica Billboard Hot 100 e contribuirà in modo determinante a trascinare l’album omonimo in cima alle classifiche.
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Tra la prateria e la metropoli
“One Of These Nights” è dunque il brano che detta la svolta: il passaggio da un folk-country radicato nelle praterie americane a un rock urbano e notturno. Un ibrido sonoro che avrebbe aperto la strada al grande successo di “Hotel California”. L’atmosfera che permea i solchi di “One Of These Nights” è quella di un’America di metà Seventies attraversata da contraddizioni e tensioni politiche e sociali. E proprio da questa tensione nasce il disco più audace e stratificato degli Eagles, un’opera che tiene insieme soul, r’n’b, rock Fm e country in un equilibrio fragile, a tratti instabile, ma magnetico. Nelle note di copertina della raccolta uscita nel 2003 “The Very Best Of The Eagles”, Don Henley fotografò quel tempo: “Ci piace definirlo il nostro periodo country-rock satanico. Perché in America era un periodo buio, sia politicamente che musicalmente. C’erano disordini a Washington e stava decollando la disco music. Noi abbiamo pensato, ‘Beh, come possiamo scrivere qualcosa con quel sapore, con quel genere di ritmo e rendere ancora pericolose le chitarre?’. Volevamo catturare lo spirito dei tempi”.
A contribuire al risultato delle session – svoltesi tra i Criteria Studios di Miami e il Record Plant di Los Angeles – sarà anche la longa manus del produttore Bill Szymczyk, patito di r’n’b che negli anni 60 aveva lavorato su “Tell It Like It Is” di Aaron Neville e “The Thrill Is Gone” di B.B. King. Una passione che si andava a saldare con quella di Frey e Henley per i dischi degli Spinners e di Al Green.
Ma non si tratta di un innesto innaturale, perché la musica degli Eagles conserva il suo trademark, il fascino della grande tradizione americana riletta al sole della California, tra cavalcate alla frontiera e tramonti alla tequila. Ecco allora riaffiorare le atmosfere western di “Desperado” in “Too Many Hands” (i Bon Jovi di “Wanted Dead Or Alive” devono aver ringraziato sentitamente) in cui si segnalano l’ottima prova vocale di Maisner (coautore del brano con Felder) e gli scintillanti intrecci di chitarra tra Don Felder e Glenn Frey, che si combinano con le morbide partiture acustiche di Leadon: il testo è un’ode a una bellezza preziosa come un arcobaleno (“Sometimes hard to find/ Like a rainbow”), sulla quale però si posano troppe mani (“Too many hands/ Being laid on her/ Too many eyes will never see/ That it’s dragging her down”), così lei si vendicherà, perché il suo fuoco sta ancora bruciando.
Lo spirito country di Leadon si sublima invece nella struggente “Hollywood Waltz”, dove la voce scura di Henley rievoca la decadenza di “Desperado” in un tripudio di mandolini e pedal steel per una riflessione amara sulle dinamiche sentimentali e sociali del dorato mondo dello spettacolo, ma anche nella magnifica suite strumental-psichedelica “Journey Of The Sorcerer”, con un estatico assolo di banjo, arricchito sia dal violino di David Bromberg che dagli archi della Royal Martian Orchestra: un paesaggio sonoro così straniante e alieno rispetto al resto del disco da simboleggiare quasi un gesto d’addio da parte dello stesso Leadon, che, come detto, lascerà il gruppo pochi mesi dopo l’uscita dell’album. Se ne ricorderà tre anni dopo la Bbc scegliendola come colonna sonora per la serie radiofonica di fantascienza “The Hitchhiker’s Guide To The Galaxy”.
A fungere da anello di congiunzione tra le radici folk-country e il successivo corso più (soft) rock della band californiana, è la sontuosa “Lyin’ Eyes” che inaugura il lato B e si rivela seconda hit del disco: si aggiudicherà un Grammy Award per la Miglior interpretazione vocale pop di un duo, gruppo o coro, conquisterà il secondo posto nella classifica Billboard Hot 100 dei singoli e riuscirà a entrare anche nella classifica country al n.8 (prima volta per gli Eagles e risultato che pochi gruppi rock dell’epoca erano in grado di ottenere). Gli occhi bugiardi sono quelli di una ragazza di città, legata per convenienza a un vecchio riccastro dalle mani fredde come il ghiaccio (“a man with hands as cold as ice”) e costretta dunque a mentire (“you can’t hide your lyin’ eyes”), ma che trova sollievo nel ricordo di un vecchio amore dei tempi della scuola. L’espediente del testo è un episodio reale: Frey e Henley si incontrano nel loro bar-ristorante preferito di Los Angeles, il Dan Tana’s, e scorgono una giovane donna molto attraente in compagnia di un uomo grasso e molto più anziano: “She can’t even hide those lyin’ eyes”, ironizza Frey con l’amico. I due si ritroveranno nella casa che condividevano a Trousdale, Beverly Hills, per trasformare quella battuta in una canzone. Ancora una volta la voce educata di Frey (qui nell’unica prova da solista del disco), i ricami chitarristici, i coretti struggenti e il drumming rilassato di Henley danno vita a un brano perfetto per gli standard radiofonici internazionali, caldo come il sole d’estate e dolce come lo zucchero. Con una di quelle melodie semplici e irresistibili, che vanno dritte al cuore.
A confermare l’abilità degli Eagles nel cesellare sonorità soffici e avvolgenti giunge anche il valzerone di “Take It To The Limit”: un Maisner, in gran spolvero, sia dal punto di vista vocale che compositivo, forgia abilmente questa trascinante power ballad destinata a far breccia nei cuori di nugoli di innamorati; il ritmo altalenante e l’uso del falsetto (specie nel finale) segnano la strada, mentre gli inserimenti del pianoforte e degli archi enfatizzano l’epos, suggellato anche da un testo che inneggia all’evasione e alla libertà: “So put me on a highway, show me a sign and take it to the limit one more time”. L’intero album è costruito su una dialettica tra desiderio e disillusione. Le storie raccontate non sono più le cronache romantiche della frontiera o dell’outsider solitario, ma ritratti urbani, figure intrappolate tra l’apparenza e il fallimento emotivo.
Don Felder scrive e canta la potente “Visions” (lato B della title track sul 45 giri), in cui può mettere in mostra tutto il proprio talento chitarristico, caratterizzato dal timbro potente e preciso della sua Gibson. Dopo la sferzata southern rock, si torna a toni decisamente più tranquilli con i languori trasognati di “After The Thrill Is Gone”, ballata disillusa, che riflette sulla perdita della passione e sul disincanto che segue l’ebbrezza del successo: interpretato da Frey nella strofa, per poi assumere forza nel ritornello grazie alla voce di Henley, il brano è un altro saggio di classe immensa che vede una dolce dodici corde integrarsi con gli energici fraseggi di chitarra elettrica e con il suono lontano della pedal steel di Leadon. Ed è proprio una canzone di Leadon a chiudere l’album, quella “I Wish You Peace” scritta a quattro mani con la sua compagna dell’epoca, Patti Davis, figlia del governatore della California e futuro presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. Definita da Don Henley “smarmy cocktail music” (“untuosa musica da cocktail”), si snoda su un ritmo indolente e strascicato, sfoderando l’ennesimo ritornello aggraziato, condito dai cori impeccabili.
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In volo verso l’Hotel California
A distanza di mezzo secolo, “One Of The Nights” può apparire datato, col suo inconfondibile aroma seventies, ma segnò all’epoca un punto di svolta, sia nel sound degli Eagles, che si scrollavano definitivamente di dosso l’immagine di gruppo da tramonto californiano e malinconie acustiche, sia nel modo in cui il rock americano del decennio iniziava a ridefinire se stesso, rinunciando all’innocenza e alle utopie dell’era hippie per immergersi nell’alienazione urbana, flirtando all’occorrenza con la black music e con la nascente scena disco. E – come spesso accade – a rendere unico l’album sarà proprio la tensione tra due anime contrapposte che per l’ultima volta riuscivano a convivere: da un lato la sensibilità narrativa di Henley e Frey, ormai votata alla scrittura di canzoni rock; dall’altro l’istinto più rootsy di Leadon, coltivato da strumenti come banjo e mandolino in odi nostalgiche all’America profonda. Come se fosse l’ultimo volo degli Eagles prima della mutazione definitiva, sancita un anno dopo da “Hotel California”. Un ideale viaggio suggellato dai testi, oltre che dalla copertina, un teschio decorato dell’artista Boyd Elder, a simboleggiare un ponte tra folklore americano e visioni futuriste. “Tutti i nostri dischi hanno il medesimo tema: la ricerca – spiegherà Henley – Non importa se si tratta di una storia d’amore, di denaro o della sicurezza: è l’atto del cercarlo. Tutta la vita è un lungo viaggio e arrivarci è più importante della fine del viaggio”.
“One Of The Nights” sarà il primo album degli Eagles a volare in vetta alla classifica Usa (per 4 settimane), aggiudicandosi anche una nomination ai Grammy nella categoria “Album Of The Year” e totalizzando quattro milioni di copie vendute. I tre singoli estratti, “One Of These Nights”, “Lyin’Eyes” e “Take It To The Limit” raggiungeranno, rispettivamente, la posizione n.1, n.2 e n.4 della Billboard Top 100, diventando immediatamente dei bestseller. Si può anche ragionevolmente considerare il loro lavoro più variegato e complesso. Eppure, secondo un consumato rituale, parte della critica storcerà il naso al cospetto della presunta “svolta pop”. Ci sarebbero voluti diversi anni per restituire la gloria a quello che rimane tuttora uno dei dischi più belli e sottovalutati degli Eagles.
Il successivo tour mondiale, con i Fleetwood Mac in qualità di opening band (!), ne confermerà lo status di superstar internazionali. Ma, nonostante la fama e le gratificazioni, la band californiana si troverà ad affrontare cambiamenti sostanziali e irreversibili. I ritmi vorticosi della tournée e lo stress accumulato finiranno con l’acuire le tensioni già presenti all’interno del gruppo. In particolar modo, il controllo assoluto esercitato da Frey e Henley in merito alle scelte artistico/musicali spingerà Leadon ad andarsene sbattendo la porta (anzi, rovesciando un boccale di birra sulla testa del malcapitato Glenn, secondo la leggenda). Al di là delle parole sbrigative di Henley, la perdita si rivelerà pesante: Leadon, abile polistrumentista, lasciava un vuoto tecnico/strumentale difficile da colmare. Dopo mesi di indecisione e numerose audizioni, il 20 dicembre 1975, verrà annunciato ufficialmente il nuovo acquisto: Joe Walsh, chitarrista di provata esperienza, con alle spalle la militanza in band di successo, quali la James Gang, e una discreta carriera solista.
A dispetto del periodo particolarmente movimentato, gli Eagles torneranno in sala di registrazione per lavorare su materiale inedito che sarebbe confluito nell’attesissimo seguito di “One Of These Nights”. Si stavano ufficialmente per spalancare le porte dell’“Hotel California” e di un’altra fase gloriosa della saga delle aquile californiane. Ma questa – ancora una volta – è un’altra storia.
20/07/2025