Veneziani: «La Calabria? serve nuova narrazione per farne conoscere la bellezza»
Intervista allo storico dell’arte Veneziani che sarà al Premio Caccuri, «C’è bisogno di una nuova narrazione per la bellezza della Calabria»
CACCURI – «Serve un racconto su misura per la Calabria. Sta cambiando il modo di raccontarla ma non basta. La materia prima per modellare il racconto della Calabria in modo più efficace c’è. La Calabria è un po’ come la Parigi di inizio Novecento. È una terra che fa percepire le stratificazioni del proprio passato. Una sorta di libro di storia con grumi di culture diverse. La cosa clamorosa è che ci sono tanti italiani che ancora non l’hanno ancora visitata». Parola di Jacopo Veneziani, storico dell’arte e divulgatore, che il prossimo 6 agosto, nell’ambito del Premio Caccuri, riceverà il Premio Arte e Letteratura e terrà una lectio magistralis. “Perfette Sconosciute. Racconti di donne che la storia ha preferito tacere” il tema su cui relazionerà. Una narrazione sull’impatto duraturo delle artiste donne attraverso i secoli. Una narrazione che intende scardinare pregiudizi. La Calabria è un po’ così. Perfetta sconosciuta anche lei. Ricca di tesori nascosti, eppure non riesce a mettere a frutto le sue doti. Ma forse è anche questa la sua “fortuna”, secondo il Veneziani-pensiero. Perché quelli che l’hanno conosciuta, non possono più fare a meno di tornarci. Come lo stesso Veneziani, che da tre, forse quattro anni frequenta ormai regolarmente la Calabria.
Il suo “Perfette sconosciute” è strutturato come un appassionante viaggio nella storia dell’arte al femminile. Da dove nasce questa idea narrativa? Dietro c’è un processo deliberato di revisione storica?
«Revisione storica no, sarebbe troppo ambizioso. L’idea nasce dalla presa di consapevolezza di un vuoto. È come se i grandi artisti fossero stati soltanto uomini e le donne soltanto muse o accompagnatrici di geni maschili. La carrellata di esempi che propongo, dal Rinascimento ai nostri giorni, dimostra, invece, che la componente femminile è importantissima nella storia dell’arte. C’è un libro di Linda Nochlin, si intitola «Perché non ci sono state grandi artiste donne». La tesi dell’autrice è che ci sono state grandi artiste, ma non sono mai state raccontate, perché spesso la storia dell’arte è stata scritta da uomini che hanno sempre avuto una scarsa considerazione della donna. E quindi mi sembrava interessante ribaltare questa prospettiva, portare un nuovo punto di vista. Si tratta anche di correggere dei pregiudizi che si sono radicati».
Lei è anche riuscito a dimostrare che il canone non è una costruzione fissa ma dinamica, che la divulgazione può svolgere un ruolo anche nella rivalutazione dei fenomeni artistici…
«Secondo me il divulgatore deve essere uno che aiuta ad avere una lettura più chiara della vita di un artista, di un’opera, di un intero periodo della storia, di un movimento artistico. L’intento era quello di usare un gigantesco evidenziatore per affermare che ci sono dei tasselli della storia che sono rimasti un po’ nell’ombra. Quindi evidenziamoli per renderli più luminosi».
Nelle sue opere, come “Divulgo”, traspare una profonda passione per l’arte e un approccio accessibile alla sua narrazione. Quali sono le maggiori sfide nel rendere l’arte comprensibile e affascinante per un pubblico non specializzato?
«L’idea è quella di cercare di far capire che la storia dell’arte non è così polverosa e accademica come potrebbe apparire. Piuttosto, è una sorta di gigantesca palestra per lo sguardo su dettagli nascosti. Ci sono oggetti che ci insegnano a vedere meglio. Vivendo in un mondo pieno di immagini, cerchiamo di capire come funzionano queste immagini. Ma è anche un modo per essere più radicati nel presente, più vigili e meno, se così si può dire, fregabili».
Lei ha uno stile di comunicazione diretto e coinvolgente. Come evita il rischio di semplificazioni eccessive?
«Bisogna cercare di semplificare senza banalizzare. Il divulgatore deve fare una selezione di cose da raccontare, perché altrimenti sarebbe una conferenza accademica e non uno spettacolo teatrale o un programma televisivo. Ma in questa semplificazione bisogna sempre lasciare intendere che c’è tutta una complessità dietro alle poche informazioni che si stanno dando. Se si riesce a far percepire che dietro al racconto semplificato c’è un universo molto più complesso, magari si riesce anche a stimolare la curiosità per scoprire quell’universo che invece non è stato raccontato. Il divulgatore è un costruttore di trampolini dai quali poi, se uno desidera, può tuffarsi anche in modo autonomo. Alberto Angela muove praticamente da solo dei flussi turistici, è come se fosse un ufficio turistico in persona. Perché quando ci racconta, che ne so, un castello, non è che dice tutto del castello, fornisce un po’ di informazioni lasciando intendere che c’è tanto altro da scoprire. E quindi uno lo sente e dice “domenica prossima voglio andare a vedere questo luogo”. Angela è riuscito così nel suo racconto a far percepire che ci sono tutta una serie di cose ancora non raccontate che vale la pena di conoscere. Se si riesce a trovare questo equilibrio tra il detto e il non detto, forse si riesce anche a stimolare la curiosità per far nascere addirittura una passione».
L’evoluzione dei mezzi di comunicazione come può aiutare il futuro della divulgazione? Ci sono nuovi strumenti e nuovi approcci per raggiungere un pubblico ancora più ampio?
«I social sono formidabili per la divulgazione. A patto, come dicevamo prima, di non banalizzare ciò che si racconta in un tempo così limitato. Reel di 90 secondi massimo impongono una sintesi estrema a chi li utilizza. Se quella sintesi viene costruita in modo efficace, lasciando intendere che c’è tanto altro oltre ai 90 secondi di reel o di video di Instagram, allora lì nasce la curiosità, il desiderio di saperne di più».
Lei parla di simmetrie tra opere apparentemente distanti. Quale simmetria l’ha sorpresa di più?
«Una delle mie preferite è stata quella che ho creato tra il desiderio di altrove di quei pittori che a inizio ‘400, come Masaccio, inseguono una prospettiva che può essere considerata l’antenata della realtà virtuale, nel senso che da un muro bianco bidimensionale ci trasporta in un mondo tridimensionale con dei volumi, degli spazi percorribili. Quindi è una cosa completamente virtuale perché la prospettiva serviva a portare lo spettatore in un altro mondo che era un mondo divino. Tutto questo ragionamento cinque secoli dopo lo troviamo in un artista come Lucio Fontana, che si mette a un certo punto a squarciare le sue tele, ad aprire uno spiraglio verso un mondo buio, ancora inesplorato. Siamo nella metà del Novecento, il tempo delle prime esplorazioni spaziali. Secondo me è un esempio efficace di come a volte con linguaggi diversi due artisti ci dicono più o meno la stessa cosa, anche a distanza di cinque secoli. Credo anche che sia un modo efficace per sganciare la storia dell’arte da un approccio meramente accademico e far percepire che l’arte è il tentativo che un altro essere umano fa di dire qualcosa a noi altri esseri umani. Inoltre, creare delle connessioni inaspettate invoglia a scoprirne altre».
Che cos’è un “altrove” per Veneziani?
«L’altrove per me oggi è una sorta di mondo parallelo a quello in cui viviamo, ma raggiungibile in qualche modo. Un rifugio, ma anche un pericolo. Siamo più spesso altrove che nello spazio che occupiamo fisicamente. Basta prendere la metro a Milano: c’è un sacco di gente che fisicamente è seduta in quel vagone ma con la mente è altrove e guarda dentro lo smartphone ignorando la presenza degli altri».
C’è un suo libro, “La Grande Parigi”, da cui traspare l’idea che l’arte in quella città non sia solo confinata ai musei ma sia parte integrante della vita quotidiana. Secondo lei l’Italia, in particolare la Calabria, sono lontane da questo modello culturale?
«La Calabria è una delle terre in cui mi sento più a casa ogni volta che vengo. Mi sento radicato qui, con le radici in super profondità. Perché la Calabria è un po’ come la Parigi di inizio Novecento: è una terra che fa percepire le stratificazioni del proprio passato. Basta passeggiare per Tropea e si può avere una panoramica del Settecento, poi c’è il Rinascimento, le tombe lasciate dagli antichi greci e le torri per difendersi dai saraceni. Questa terra è una sorta di libro di storia con grumi di tante culture diverse, come era la Parigi di inizio Novecento. C’è una diversità di forme e di culture tale che è difficile non sentirsi a casa qui, a prescindere dalla propria formazione, dalle proprie origini. Insomma, è una di quelle terre che sono state talmente arricchite nel corso dei secoli che alla fine quasi tutti riescono a trovare qualcosa di familiare in quel panorama, in quella cultura e dunque riescono a sentirsi a casa».
Questa estetica della Calabria, questa idea di stratificazioni di varie storie, può bastare per questa terra?
«Non può bastare, ma è la materia prima da cui partire. Frequento la Calabria con regolarità da tre o quattro anni e vedo che alcune cose stanno cambiando nel modo di raccontarla, in termini di promozione del territorio. Non basta questa materia prima, perché deve essere modellata con un racconto fatto su misura per questa regione, perché c’è ancora tanto da dire. Ci sono moltissimi italiani che non sono mai stati in Calabria. Ed è una cosa clamorosa. Diversamente da quanto accade alla Sicilia che è pure più distante. La Calabria secondo me è una terra che non ha forse ancora trovato pienamente il modo per raccontare se stessa in maniera efficace. Questa è anche, in parte, la sua fortuna. Quelli che hanno già visto la Calabria ci tornano proprio perché è rimasta assolutamente autentica, pura rispetto alle logiche del turismo di massa. Bisogna trovare la formula giusta per far conoscere a più persone la Calabria senza farle perdere questa sua parte incontaminata».
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