Politica

Venezia 2025, “La Grazia” di Paolo Sorrentino fa impallidire tre quarti di cinema italiano con un Presidente Servillo tra Scalfaro e Mattarella e i dubbi sull’eutanasia.

“Ho deciso, nel dubbio”. È la sentenza finale di Mariano De Santis (Toni Servillo), “il presidente della Repubblica”, un Oscar Luigi Scalfaro venato di abiti mattarelliani, protagonista inatteso del film “La Grazia” di Paolo Sorrentino, in concorso per il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia 2025.

Circondato da un Papa nero che fugge in motoretta nei giardini vaticani, dal rapper Guè Pequeno che si becca pure la medaglia del Quirinale, canticchiando “Le bimbe piangono”, dall’amica critica d’arte uscita da qualche antro buio di “La grande bellezza”, e dalla puntuta figlia e collaboratrice Doretea (Anna Ferzetti), l’ex giurista cattolico De Santis è entrato nel semestre bianco e sul suo tavolo sono disposti tre fascicoli da firmare (o meno) prima di ritirarsi a vita privata: quello della legge sull’eutanasia, la domanda di grazia di una donna che ha ucciso il marito che la torturava e quella di un uomo che ha ucciso la moglie malata di Alzheimer.

Macerato nel ricordo doloroso della perdita recente della moglie, ma soprattutto dal tradimento di lei con un misterioso mister X, lo stanco, catatonico (“quando prego mi assopisco”) De Santis rimanda di continuo una decisione su tutto, palleggiato tra i pilastri sacri del diritto e la propria fragile vibrante sensibilità. Sorrentino abbandona per 133 minuti parte consistente del consueto pesante armamentario di sfiancanti simbolismi, formalismi e aforismi dei suoi film più pretenziosi, concentrandosi su una trama più lineare ed una storia più intima (le cose che gli riescono meglio, insomma, come “L’uomo in più” ed “È stata la mano di Dio“), facendo oltretutto baluginare un’intromissione nel politico come se fossimo in uno spin off di “Il divo” precipitato sui binari della nostalgia.

Sorrentino ha il curioso e bizzarro merito, infatti, di trascinare la gravitas del protagonista nelle caverne delle proprie eccentricità visive (la lacrima dell’astronauta in 3D che viaggia verso l’indice presidenziale attraverso lo schermo) quasi facendole limitare e limare a vicenda, giostrando con maestria sia il registro del tragico che quello del comico, accostando ad esempio (permetteteci) con grazia un canto degli alpini ad un videoclip musicale ultracontemporaneo solo strumentale (a proposito, che gioiello).

Insomma, “La Grazia” è in stabile raffinato equilibrio fra peculiarità di stile e cose chiare da dire come ad esempio lo spinoso tema dell’eutanasia, non proprio la minestrina pronta per le colonne da quotidiano progressista. De Santis, sorta di ultimo esempio di vecchio notabilato democristiano, è sì eticamente titubante nel firmare la legge del fine vita, ma la trovata del cavallo malato del Quirinale da abbattere (a proposito si chiama Elvis, chapeau) con il presidente che non lo fa sopprimere e che anzi rilancia chiedendo di specificare “cosa possiamo chiamare agonia”, non solo lascia un groppo in gola di sublime commozione, ma lascia penzolare una porta aperta su certezze ed interrogativi sull’annoso tema.

Già, perché nel cinema di Sorrentino, e “La Grazia” non fa eccezione, ogni possibile soluzione morale passa attraverso lo svuotamento faticoso dei pieni per la leggerezza improvvisa dei vuoti, in una progressiva ricerca di pacificazione interiore che deve attraversare la pena di uno strazio profondo e personale del protagonista/i. Aspetto che spesso non corrisponde politicamente con ricette preconfezionate al di fuori delle narrazioni da grande schermo. Comunque i fan stiano tranquilli: le carrellate al vento e le copiose pippate di sigaretta non mancano. Solo che in “La Grazia” c’è più sangue che pulsa rispetto ad un Sorrentino classico da far impallidire tre quarti di cinema italiano. In sala a gennaio 2026.


Source link

articoli Correlati

Back to top button
Translate »