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Valerio Mastandrea: «Il cinema italiano dovrebbe camminare da solo, senza soldi pubblici e senza slogan»

La generosità di Valerio Mastandrea è una garanzia, con lui è impossibile sintetizzare, sia quando si parla di lavoro, famiglia, sdrammatizzando, ma anche facendosi seri sui veri aspetti importanti della vita, sugli argomenti più diversi. Lo scenario in cui lo incontriamo è durante il Karlovy Vary International Film Festival, in Repubblica Ceca, giunto alla 59esima edizione, storico appuntamento a livello cinematografico. L’occasione è presentare al pubblico il suo ultimo lavoro da regista, Nonostante (passato in apertura l’anno scorso nella sezione “Orizzonti” alla Mostra del Cinema di Venezia) e che nel titolo in inglese si traduce Feeling Better. Sale piene, voglia di scoprire cos’ha da raccontare, Mastandrea, 53 anni, conquista perché incarna l’animo vero, senza filtri, dell’uomo, prima dell’artista, in grado di dirti sempre la verità, anche quando lo facciamo “partire per la tangente” rispondendo sull’attualità culturale in Italia. In attesa di vederlo nel prossimo lavoro di Paolo Virzì, Cinque secondi, e in quello di Gianni Zanasi. È andata così, ci diverte, prendendo in giro l’amico Zerocalcare, col quale tornerà presto a collaborare in un nuovo progetto.

La regia è diventata ormai una seconda pelle.
«Intanto inizio a riconoscermi un po’ io, capisco che questo lavoro è la normale evoluzione di quello che ho fatto fino ad adesso. La cosa importante è che mi va di farlo, con questo film la gente ha visto un segno mio riconoscibile, e quindi aumentano certe responsabilità».

È difficile lasciare un’impronta?
«Il miglior giudizio alla fine arriva dal pubblico, anche se il primo è comunque sempre il tuo rispetto a ciò che fai. Sono andato in giro tanto a promuoverlo, è capitato di fare anche tre presentazioni e un dibattito la stessa sera, ma parlare col pubblico è stato importante, curativo anche diciamo, ho ricevuto risposte di tutti i tipi, emozionanti».

Le va di tornare a girare ancora?
«Sì, mi piace, mi completa, mi arricchisce, ma anche qui comandano sempre le storie. Se ce n’è una in cui tuffarsi dentro, è automatica la voglia di volerlo realizzare».

Ripercorriamo la sua carriera cinematografica: 85 film in 32 anni, sono tanti.
«Troppi, è vero. Ho iniziato nel 1993, ed è indice comunque di un’industria, se vuoi, non tanto sana. Lavorare così tanto, magari se scorporiamo i decenni, che tipo di film… c’è sempre il tentativo di sfruttare l’attore del momento: lo incastri in un ruolo da giovane, lo prendi e lo strizzi fino alla fine. Poi, se non ha gli strumenti per capire che deve affrancarsi anche un po’, rischia di sparire. Penso che di attori della mia età bravissimi ce ne siano tanti, molti lavorano, altri no. Aver fatto tre film l’anno non è una cosa normale: non avevo creditori alla porta o sette famiglie da sfamare, non sono uno che volesse arricchirsi. Si vede che la richiesta era quella ed io ho imparato piano piano. Il passaggio nel fare cose mie è venuto da una saturazione. Essere attori significa esserlo di qualcosa e di qualcuno».

Cosa ha scoperto di sé stando dietro la macchina da presa?
«Nel mio primo film c’era una bulimia di angosce e ossessioni. Anzi, chi riesce a fare un’opera prima equilibrata è una sorta di “santone”, perché cerchi di mettere tutto quello che sei il più possibile e magari esageri. Ho imparato soprattutto a rispettare gli attori, riconoscerli, ascoltarli. Sono cose che ho chiesto ai registi con cui ho lavorato, anche quando ho avuto delle frizioni (e ce ne sono state, non tante però)».

Nessun rimorso?
«No, mai. Qualche rimpianto sì: ho giocato in squadre e con magliette diverse che non mi sarei dovuto mettere. Ci sta. Nel mio lavoro, quando non c’era totale sintonia col motivo per cui quella pellicola veniva fatta, ho sempre un po’ zoppicato. Devo credere a quello che faccio».

Quali qualità si riconosce?
«Penso di non essere la persona di 25 anni fa, ma l’approccio al lavoro non è cambiato, quello rimane. Devo baciare per terra perché ho trovato un posto dove mettere tutte le mie cose, continuando a pensare che essere in pace nella vita è l’ambizione più grande che ho, non vincere l’Oscar. Spero non mi serva quello».

L’equilibrio familiare è la priorità.
«Il lavoro è tossico, spesso comanda, ma devi stare anche in ascolto degli altri. Vorrei limare qualcosa, avere grande rispetto per la professione, ma senza perdere di vista il resto, senza condizioni».

Sono insegnamenti che ha trasmesso ai suoi figli?
«Mio figlio più grande ha 15 anni. Una volta, fuori dalla sua scuola, c’era un ragazzo più grande che non conosceva e voleva una foto con me. Lui ha visto questa scena e mi ha detto: “Quanto si può stare male per chiedere una foto con te?”. Ecco, il mio termometro di autostima è nelle sue parole (ride, ndr). Mentre il piccolo, che ha 4 anni, non emula ma ha un sacco di armi a suo favore per fare questo lavoro in un’altra maniera».

Il grande sa già cosa vorrebbe fare?
«Esiste una fase della vita in cui si sa veramente cosa si vuole fare? Niente, e te lo dice. Conta il qui e ora. Si gode il suo liceo classico, scelta sua».

Poco tempo fa è uscita una clip molto divertente con Zerocalcare, col quale tornerà a collaborare.
«Non posso dire nulla sul progetto, ma parlare male di lui sì (ride, ndr). Facevi prima a chiedermi “che puoi dire di bello?”. Niente. Se è stato definito l’ultimo intellettuale, pensa chi è il penultimo… questa è la frase che vorrei scrivere sul braccio. A parte gli scherzi, Michele (Rech, ndr) è una persona capace di rimanere in contatto col mondo in maniera molto personale, originale e universale. Riesce a comunicare a tante persone una sua visione. È inserito dentro un meccanismo culturale e sociale collettivo, in cui si interroga e sa parlare di cose anche più grandi».


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