Valeria Solarino: «Un Paese non vive solo di buone intenzioni, servono diritti, istruzione e coraggio di cambiare. La mia voce può diventare un megafono per chi non viene ascoltato»
Facciamo un passo indietro. Che storia c’è dietro a questo riconoscimento?
«Da anni, seguo il lavoro di Amnesty. Poi, nel 2023, mi è stato chiesto di iniziare a collaborare con loro, cercando di portare maggiore visibilità su alcune delle loro campagne. Come personaggio che lavora nello spettacolo, posso dare una risonanza diversa rispetto a certe cause: la mia voce può essere un megafono, raggiungere delle persone che, magari, di solito, non seguono Amnesty. Per questo, voglio metterla a servizio di cause in cui credo».
Come i diritti dei migranti. Lei è stata a Lampedusa, a 10 anni da uno dei naufragi nel Mediterraneo che ha causato più vittime. Ha incontrato Maysoon Majidi, l’attivista curdo iraniana accusata di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Ha girato un documentario dedicato a Sean Binder.
«Sono tutte storie che mi hanno colpito e lasciato un segno. Soprattutto quella di Majidi: all’epoca, anche noi in Italia, protestavamo al fianco delle attiviste iraniane del movimento Donna Vita Libertà. Poi una di loro, Maysoon Majidi per l’appunto, riesce a scappare dal suo Paese dove rischiava di essere arrestata e addirittura uccisa, ma viene accusata di essere la scafista della barca su cui si trovava. Viene arrestata in Italia, spedita in carcere senza sapere neanche l’accusa perché, per mesi, non ha avuto la possibilità di avere un interprete. A me sembrava assurdo che non la proteggessimo. Nelle piazze, si manifestava per le attiviste ma lei, nel frattempo, veniva tenuta in carcere senza prove concrete».
Lo evidenzia anche nel documentario su Sean Binder: per lei, c’è un totale scollamento tra società civile e istituzioni politiche.
«Certo. Molto spesso, le persone si mostrano solidali con le altre: è un’azione quasi spontanea. Mentre i governi no, sono regolati da principi totalmente diversi e più complessi che fanno capo a un sistema economico globalizzato. In una realtà di questo tipo, non c’è molto spazio per i diritti umani».
Però, la solidarietà non può essere l’unica soluzione.
«Un Paese non può reggersi solo sulla solidarietà: non basta. Però, al contempo, io sento di dover fare qualcosa, di dover agire. È come diceva Pertini: “Nella vita a volte è necessario saper lottare, non solo senza paura, ma anche senza speranza”. La mia riconoscibilità, popolarità dovuta al lavoro che faccio, trova un nuovo senso quando può essere messa al servizio di qualcos’altro. Inoltre, trovo profondamente ingiusto che tutto questo accada e la storia di Amnesty dimostra che l’azione del singolo, quando diventa collettività, può fare la differenza».
La società civile è anche quella che, negli ultimi anni, diserta costantemente le urne. Non trova che stonino un po’ questi aspetti?
«Credo che siano due aspetti che si muovono su piani diversi. Ultimamente, vediamo manifestazioni molto partecipate perché sono queste lo strumento più immediato di democrazia: c’è qualcosa che non ti va bene, protesti, esprimi la tua opinione. Però, non c’è solo quello: essere un cittadino vuol dire anche partecipare alla vita politica del tuo Paese. E questo non significa candidarsi, ma anche informarsi, crearsi un proprio punto di vista, approfondire, capire quello che sta succedendo. Per me, vanno di pari passo e significa sentirmi pienamente una cittadina».
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