una bellissima serie TV, più che un gioco
Chi di noi non è cresciuto con il mito dell’eroe indomito, capace di volare, scaraventare via i nemici a chilometri di distanza o muoversi a velocità supersonica? Ogni generazione ha avuto il suo simbolo: da Superman ai robottoni giapponesi, passando per gli anime fino ai più recenti volti dell’MCU. Quante volte abbiamo sognato a occhi aperti di essere come loro, avvolti in un mantello o in un costume cucito su misura. Ma ancor più che trionfanti, ci piace vederli cadere, soffrire e rialzarsi, per insegnarci ancora una volta cosa significhi essere un eroe. È proprio attorno a questo topos che prende forma Dispatch, avventura narrativa a scelta multipla firmata dagli esordienti AdHoc Studio.
Chi sono gli autori
“Esordienti” si fa per dire: al suo interno si celano le penne degli ex-Telltale Games che, dopo la chiusura dello studio nel 2018, hanno fondato una nuova realtà in perfetta continuità con quella tradizione narrativa.
Non sorprende quindi che la loro opera prima richiami alla mente titoli come The Wolf Among Us o The Walking Dead. Un gioco che, ancor prima che per i contenuti, stupisce per i numerosi talenti coinvolti, a partire da Aaron Paul, voce del protagonista, e da un cast d’eccezione che include Jeffrey Wright, Charlie White, Erin Yvette e Laura Bailey, solo per citarne alcuni. Il progetto è difatti frutto della collaborazione con Critical Role, il collettivo di doppiatori professionisti noto per le sessioni di D&D. Ma Dispatch dimostra alti valori produttivi anche al di là del cast vocale: dalla regia alle animazioni, passando per le musiche. Tutto funziona alla grande all’interno di quest’opera suddivisa in otto episodi, che vi costringerà a divorarla senza soluzione di continuità. C’è solo un piccolissimo problema: ma il gioco, dov’è?
Sono un eroe
In Dispatch impersoniamo Robert Robertson, un eroe che poteri non ne ha. Di “super” possiede la forza di volontà e un incrollabile senso di giustizia: quanto basta per salire ogni giorno a bordo del suo mecha e tenere al sicuro le strade di Torrance, la cittadina californiana che fa da sfondo all’avventura. Una tradizione che si tramanda di padre in figlio presto destinata a interrompersi.
Nel tentativo di vendicare la morte del padre, Mecha Man, l’alter ego di Robert, cade nella trappola dell’enigmatico Shroud, ritrovandosi senza più armatura né denaro per ricostruirla. A tirarlo fuori dalla miseria ci pensa la Superhero Dispatch Network (SND), un programma di riabilitazione per ex super-cattivi che, in cambio della sua collaborazione, si impegna a riparare il mecha.

Il compito è tanto semplice quanto insolito: coordinare da remoto un gruppo di ex villain per combattere la criminalità. Un incarico non semplice dato che i componenti dello Z-Team – questo il nome della nostra squadra – sembrano pronti più per Jersey Shore che per ristabilire l’ordine pubblico: violenza, battute a sfondo sessuale e scatologico saranno il mantra ricorrente. Comportamenti infantili che nascondono ferite profonde, e in Dispatch se ne celano più di quante non ne coprano le stesse maschere sui volti dei protagonisti.
Tolto il guscio d’umorismo adolescenziale, la forza di Dispatch risiede nei suoi sottotesti. Da un lato Robert, sospeso fra filosofia zen e fatalismo, che impara a essere eroe anche senza mecha. Dall’altro lo Z-Team, reietti costretti a collaborare per non tornare dietro le sbarre.
È davvero un piacere vederli passare dal respingersi come poli opposti al diventare una famiglia disastrata ma autentica. D’altronde più che cattivi sono pecore smarrite, in cerca di dare un senso alle loro vite. Un passaggio ben evidenziato da Robert che, parlando con il suo mentore, si domanda: “Se non avessi avuto te che fine avrei fatto?” AdHoc Studio tesse così una doppia storia di redenzione, ed è proprio in questo intreccio che Dispatch trova la sua anima più autentica, seppur non priva di sbavature. Nonostante il plot funzioni egregiamente, è impossibile ignorare una certa focalizzazione sulle dinamiche romantiche, che dal mid-game tendono a monopolizzare l’attenzione. Se i rapporti con Blonde Blazer e Invisigal godono di un ampio respiro, altri rimangono nell’ombra, penalizzando l’ottima caratterizzazione generale.
Una scelta inevitabile data la brevità degli episodi (circa cinquanta minuti ciascuno) che devono tener conto anche delle sezioni di gameplay. Un limite da un lato, un vantaggio dall’altro: proprio grazie a questi ritmi serrati, Dispatch si presta a un binge-watching obbligato. Qualche perplessità può sorgere giusto sull’ultimo episodio, che mostra piccole incongruenze, senza tuttavia penalizzare la resa generale dell’opera. Galvanizzati dall’idea di poter plasmare la storia con le nostre scelte, siamo giunti ai titoli di coda impazienti di ricominciare da capo. Ed è proprio qui che l’incanto si rompe.
L’inganno della scelta
Dispatch è un gioco che si guarda o una serie che si gioca? Una domanda marzulliana che ci ha martellato per tutto il tempo durante la valutazione del titolo. Riavviando la campagna abbiamo constatato amaramente che le scelte non portano a variazioni significative, salvo in rare circostanze.
Nella maggior parte dei casi si tratta di alternative che ci portano a situazioni già viste: possiamo scegliere se colpire qualcuno con dei noodles o con un frullato; se fare o meno il terzo incomodo a un appuntamento; o ancora decidere quale insulto rivolgere al malcapitato di turno; ma quasi mai si sfocia in un vero bivio narrativo. Solo una manciata di decisioni ha un impatto reale sulla trama, andando a modificare parzialmente il finale dell’opera. Constatare di non essere davvero co-protagonisti insieme a Robert, ma semplici spettatori della sua storia, ha interrotto la magia.
Un inganno che non risparmia nemmeno i quick time event: compiere l’azione richiesta o restarsene con le braccia conserte non cambia assolutamente nulla ai fini della trama. E allora a che scopo dare una scelta se, nella realtà dei fatti, quella scelta non esiste? È chiaro che gli autori avessero una visione cristallizzata dalla quale è impossibile deviare. Ed è per questo che Dispatch, come serie, funziona: è scorrevole, ben realizzata, doppiata alla perfezione, forte di un comparto tecnico d’eccellenza e di musiche azzeccatissime. Ma in qualità di videogioco, Dispatch è un titolo che mette appena il naso fuori dalla tana.
L’uomo sulla sedia
L’unica vera e propria componente ludica è rappresentata dalle sezioni manageriali, in cui bisogna distribuire le forze dello Z-Team lungo una mappa interattiva della città di Torrance.
Lo scopo è rispondere alle chiamate dei cittadini e dispiegare il team nel modo più efficace possibile. Le missioni sono di ogni tipo e riflettono la stessa demenzialità che caratterizza il resto del gioco: si passa dal recuperare il gatto di una vecchietta – che si rivelerà essere una tigre – al fermare un aereo in caduta libera, al riportare a casa dei genitori spediti per sbaglio in un’altra dimensione dal figlio. La buona riuscita degli incarichi dipende soprattutto dalle caratteristiche del supereroe, che devono sopperire ai parametri della missione. Se fermare un treno in corsa richiede gambe fulminee e forza erculea, una presentazione per l’SND avrà bisogno di un profilo carismatico. Parametri come resistenza, velocità o carisma possono essere migliorati accumulando punti esperienza al termine delle missioni completate con successo.
Le richieste aumentano esponenzialmente – Torrance è una città davvero problematica – e spesso per risolverle bisogna combinare le forze del team. Team che, tra un intervento e l’altro, ha bisogno di riposo. Sempre che non si metta il bastone tra le ruote da solo: parliamo pur sempre di ex criminali e i capricci sono all’ordine del giorno. Ogni super è poi dotato di varie abilità speciali, sfruttabili per aumentare le probabilità di successo. Dal suo lato dello schermo, Robert può intervenire tramite brevi sessioni di hacking: si controlla un cursore su una rete di nodi per recuperare chiavi, aprire passaggi o distruggere antivirus. Sono minigiochi a tempo, semplici ma sorprendentemente divertenti.
Ed è proprio questo il punto. Queste sezioni di gameplay sono geniali: riflettono l’andamento dell’episodio, aggiungono meccaniche puntata dopo puntata e restituiscono un reale senso di progressione. Il problema è che, esattamente come accade per le scelte, il successo o il fallimento non produce alcun effetto.
È chiaro che la loro presenza serva soprattutto a spezzare il ritmo di quella che, altrimenti, sarebbe una serie televisiva in tutto e per tutto. Un peccato esacerbato nell’episodio finale, dove il gameplay mostra il suo vero potenziale, facendo rimpiangere il fatto che tale cura non sia stata applicata ovunque. Uno spreco che si rafforza durante la seconda partita, dove le missioni si ripetono identiche. Una volta scoperto il trucco, non importa più riuscire o fallire, perché senza una adeguata ricompensa si ha meno voglia di essere “eroi”.
Un comparto visivo…Super!
Quello su cui non si può recriminare a Dispatch è la messa in scena. La regia è di altissimo livello, con inquadrature, transizioni e un dinamismo che non hanno nulla da invidiare alle controparti televisive.
A colpire subito è lo stile grafico, a metà strada tra fumetto e realismo stilizzato. Un’estetica che ricorda da vicino quella di Invincible, con la stessa capacità di fondere la vivacità del cartone animato alla tensione drammatica di una serie per adulti. AdHoc Studio spreme l’Unreal Engine 4 per valorizzare ombre, riflessi e dettagli ambientali, regalando alla messa in scena un respiro decisamente cinematografico. Le animazioni facciali sono impeccabili: ogni sguardo, esitazione o sorriso è si legge istantaneamente sul volto dei personaggi, segno di una recitazione digitale curata al millimetro. Ma ciò che colpisce ancora di più è la resa del movimento complessivo, che ci fa dimenticare di non trovarsi davanti a scene pre-renderizzate. Le sequenze d’azione, in particolare quelle dell’ultimo episodio, sono così spettacolari, che non hanno nulla da invidiare alle produzioni Marvel.
Ma non c’è solo tecnica. La sinfonia resterebbe incompiuta senza l’impeccabile caratterizzazione dei personaggi, che in quest’opera corale fungono da perfetto contrappunto. I botta e risposta, l’ironia e un sottile filo di dolcezza sono il carburante principale che alimenta gli otto episodi della serie.

Impossibile arrivare ai titoli di coda senza provare un po’ di affetto per quel disgraziato Z-Team che abbiamo visto cambiare episodio dopo episodio. Un viaggio scandito dalle note di una colonna sonora di pari livello, che spazia dal rock, alla fusion, alla synthwave senza mai stonare con la componente visiva.
Forse è proprio per via di questa incredibile produzione artistica che le parti ludiche finiscono per sembrare ancora più sottotono. Con più tempo e un budget diverso, o forse semplicemente intenzioni diverse, AdHoc Studio avrebbe potuto realizzare davvero quell’esperienza “interattiva” che Dispatch meriterebbe per essere considerato non solo una splendida serie, ma anche un grande videogioco.
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