Politica

un mondo autentico con qualche forzatura

Esordio di successo alla regia per Nunzia De Stefano, con il peso e il fiuto di un produttore come Matteo Garrone, che in Malavia riconosce un’operazione affine al suo cinema della realtà cruda e sociale e, soprattutto, apre alla regista le porte dei finanziamenti di Raicinema.

Il film naviga in una Napoli molto diversa da quella sorrentiniana, tuffando lo spettatore nel sottobosco degli aspiranti trapper di periferia, un mondo spesso raccontato con toni documentaristici o di denuncia sociale, che qui cerca una sua propria strada, con luci ma anche qualche ombra.

Punto di forza indiscusso del film è senz’altro la fresca bravura del cast di attori, in gran parte volti nuovi o presi dalla scena musicale stessa. Una recitazione naturale, la loro, immediata, priva di quelle forzature che spesso ingolfano i film sui mondi giovanili borderline. Trasmettono autenticità palpabile, restituendo ambizioni, insicurezze e la lingua cruda dei loro personaggi (sempre sottotitolati) con una verità che non può che catturare lo spettatore. Sono loro a dare anima e corpo a un universo che potrebbe risultare altrimenti stereotipato, mostrando non solo la spavalderia, ma anche le vulnerabilità e la fragilità di ragazzi che vedono nella musica un’ancora di salvezza.

Venendo ai punti più critici, la sceneggiatura non è sempre all’altezza delle performance. Emerge una certa indulgenza nel ritrarre le aspirazioni e il percorso dei protagonisti. La narrazione, forse nel tentativo di mantenere empatia con i personaggi, scivola in una forma di compiacimento, mancando di quel distacco critico che avrebbe potuto scavare più a fondo nelle contraddizioni e nei pericoli del sottobosco sociale napoletano. Il rischio è che la rappresentazione, pur nella sua genuinità, finisca per romanticizzare un percorso di vita costellato di insidie, senza metterne sufficientemente in luce le inevitabili conseguenze più amare.

Inoltre, l’inutile necessità di forzare la storia verso un happy ending pieno di speranza, tenta a tutti i costi di concludere con un tono redentivo e potenzialmente ottimista per gli “ultimi” della società, molto stridente con il realismo sporco e le premesse del film. È come se, dopo aver mostrato la durezza del contesto, la regista avesse avuto paura di consegnarci un finale realistico, amaro o ambiguo, rifugiandosi in un messaggio di condiscendenza che, in questo caso, appare poco guadagnato e quasi imposto. Una scelta rischia di smussare la potenziale critica sociale dell’opera, indorando una pillola che, per sua natura, avrebbe dovuto essere più indigesta.


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