Veneto

Un film su Andrea Romanelli, scomparso nell’Atlantico. Il figlio Tommaso: «Voleva capire cosa lo spingesse»

Sono passati 26 anni da quando, nel 1998, Andrea Romanelli è scomparso nelle acque dell’Atlantico. Stava tentando di battere il record di traversata dell’oceano con Giovanni Soldini quando un’onda gigantesca ha capovolto la barca Fila: nel buio pesto di una notte di tempesta, il mare l’ha inghiottito per sempre.

Ingegnere e velista di Udine, Andrea era prima di tutto un marito e un papà: ora è il figlio Tommaso, che al momento della tragedia aveva solo quattro anni, a raccontare la sua storia di passione e di vela nel coraggioso, bellissimo documentario “No More Trouble – Cosa resta di una tempesta”, presentato giovedì 17 ottobre ad Alice nella Città, sezione parallela della Festa del Cinema di Roma. Lo vedremo al cinema a novembre, distribuito dalla friulana Tucker Film, a Udine approderà il 12.

«Questo film è un tentativo di ricostruzione della figura di mio padre: capire chi era, comprendere qual era il demone che lo muoveva in queste imprese è stato fondamentale per capire chi sono io», dice Tommaso Romanelli, che ha cucito toccanti audio privati inviati da Andrea alla moglie Fabrizia Maggi, video di famiglia, filmati dell’epoca e interviste all’equipaggio del Fila.

Com’è nata in lei l’idea del film?

«In una libreria in camera mia ho ritrovato delle videocassette che Soldini aveva consegnato a mia mamma al funerale. Erano le riprese del viaggio del Fila fino alla notte dell’incidente: le ho viste da solo, a casa, ero scioccato. C’è anche la partenza da New York: sono immagini epiche, iconiche, molto anni ’90. Ho capito che erano qualcosa di preziosissimo. E ho detto: voglio vedere di più».

Nel film ascoltiamo gli audio pieni d’amore che Andrea inviava alla moglie Fabrizia, sua madre, anche da un viaggio precedente, nel 1993, quando ha battuto il record italiano della Minitransat in solitario attraversando l’Atlantico su una barca di sei metri e mezzo…

«Avevo sentito quelle audiocassette l’ultima volta nell’infanzia. Ho sentito che la sua voce era dentro di me ma mi sembrava anche uno sconosciuto, perché non ho ricordi diretti di mio padre. Mia madre si occupa di teatro, mi ha sempre abituato a una grande educazione all’immagine. Appena le ho confessato l’intenzione di fare un film utilizzando anche quegli audio mi ha subito supportato, anche al costo di esporre la sua vita privata e tornare a fare i conti con un gran dolore mai del tutto risolto».

Era importante che nel film ci fosse anche Giovanni Soldini.

«Ho deciso di incontrarlo, mi aveva già cercato quando ero più giovane. A Milano mi ha raccontato questa storia pazzesca, ma anche cosa significava andare in barca per loro, cosa cercava insieme a mio padre. Mi si è aperto un mondo».

Per realizzare il film ha fondato in Friuli una società di produzione, la Teorema Studio…

«Sì, insieme a Chiara Cordaro, amica storica del liceo di mio padre a Udine, che ed è stata tra le prime a lavorare per la Indigo Film insieme a Nicola Giuliano, Francesca Cima e Carlotta Calori. Da dieci anni aveva lasciato il cinema per insegnare, ma si è rimessa in gioco. Non era un film che potevo affidare completamente a un altro produttore, c’erano in gioco questioni relazionali ed emotive troppo complesse. Grazie al Fondo per l’Audiovisivo, alla Friuli Venezia Giulia Film Commission e al tax credit abbiamo dato solidità finanziaria al progetto e Indigo Film è entrata in coproduzione».

Era necessario che “No More Trouble” fosse anche un film sulla vela?

«Sì perché ho scoperto una dualità di mio padre. Era un ingegnere laureato in Ingegneria aeronautica al Politecnico di Milano, voleva innovare per costruire la barca più veloce del mondo. Allo stesso tempo era anche un velista molto serio: era convinto che andando lui stesso per mare si sarebbe avvicinato di più alla perfezione».

Grazie al film sente di avere avuto più risposte su cosa è successo quella notte?

«Sì ma purtroppo nessuno, neanche chi era lì, saprà davvero qual è stato il destino di mio padre. L’ultimo ad averlo visto è stato Andrea Tarlarini che era in coperta con lui, e si è salvato. La cosa più importante è stato capire che in certi casi della vita bisogna fidarsi degli occhi delle persone che ti raccontano i fatti e accettare che, su alcune cose, non potremo mai avere delle risposte esatte. Ma è stato come dare un motivo alla sua assenza: mio padre è morto cercando di vivere la vita che voleva».


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