Cultura

Umbria Jazz 2025, Arena Santa Giuliana e Teatro Morlacchi, Perugia


Il nostro Umbria Jazz inizia al Teatro Morlacchi, una delle storiche venue del Festival perugino, paradiso in terra per gli affezionati più puristi della kermesse e per gli amanti del genere. Sul palco c’è un ragazzo classe ‘98, Isaiah Collier, nato nella città del vento e ora in tournée per diffondere un po’ del suo jazz anche nella penisola italiana. Insieme a lui ci sono i Chosen Few: piano, contrabbasso e batteria. Che siano buoni, oltre che pochi, lo si intuisce dopo appena qualche minuto di concerto. A spiccare è soprattutto la pianista Liya Grigoryan, discreta e poco appariscente, ma dotata di un talento strabordante e cristallino. È seduta di spalle al pubblico, alla destra di Collier, mentre quest’ultimo, in piedi dall’alto del suo metro e novanta, oltre agli ottoni di ordinanza tiene a portata di mano oggetti e cianfrusaglie, da usare all’occorrenza per generare inserti sonori da incastrare tra le onde del suo jazz “cosmico”, un po’ Sun Ra e un po’ Coltrane. Ma è tutt’altro che musica di tradizione, quella di Collier, indecifrabile com’è e difficile da incasellare in definizioni precise o categorie stagne. Ciò che invece è certo è che una parte della sua arte nasce dalla rabbia, dalla protesta per un mondo pregno di violenza e discriminazione. L’inno americano ad apertura di uno dei suoi brani in scaletta – principalmente tratti dal suo ultimo “The World Is On Fire” (2024) – sembra quasi ridicolizzare gli Stati Uniti odierni con divagazioni cacofoniche, al limite del grottesco. Come Hendrix fece a Woodstock nel 1969, Collier racconta tramite le note del suo sassofono uno stato distorto, quasi distopico nelle sue dinamiche politiche esuberanti e prepotenti. Dopo circa un’ora e mezza di concerto e ascoltato anche l’ultimo bis concesso al pubblico del suggestivo – e quasi colmo – Teatro Morlacchi, insieme alle ultime luci del sole apre i suoi cancelli al pubblico anche l’Arena Santa Giuliana, quest’anno con un giorno di ritardo rispetto al normale, per il forfait – quasi last minute – dei Sacred Soul.

Sul palco del Santa Giuliana si gode la vista del pubblico e dell’iconico campanile del vecchio monastero Stefano Bollani – ormai ospite abituale del festival perugino – con il suo jazz gitano e sudamericano. Stavolta è accompagnato dagli ottimi Steve Ballard alla batteria e Larry Grenadier al basso (l’anno scorso sullo stesso palco con il Brad Meldauh Trio), Mauro Refosco alle percussioni e Vincent Peirani alla fisarmonica. È proprio quest’ultimo, rigorosamente a piedi scalzi, a strappare gli applausi più fragorosi della serata con fantasie e divagazioni dal sapore gypsy, che alternano con sublime maestria la concitazione di una carovana in danza e l’intimità di un momento raccolto durante il quale, oltre alla musica della fisarmonica, puoi sentire persino il rumore delle dita che muovono i tasti, come il ticchettio della pioggia su un vetro o le labbra di una bocca che si toccano per pronunciare una frase soltanto sussurata. L’onore di chiudere il primo show del Santa Giuliana tocca ai Patagarri, che scaldano il pubblico chiamandolo direttamente sotto al palco dopo pochi minuti dall’inizio del concerto. L’ironia delle loro storie, ritualmente introdotte da un discorso di Francesco Parazzoli, si trasforma in musica colorata da tinture balcaniche e anche stavolta gitane, soprattutto per il lavoro ai fiati di Giovanni e Arturo Monaco. Il finale lascia spazio anche a qualche classico. Su tutti “Bella Ciao”, “Il cielo in una stanza” e la tradizionale “St. James Infirmary”.

Il giorno seguente qualcuno teme il peggio. La minaccia della pioggia aleggia sull’Arena fino a pomeriggio inoltrato, ma per fortuna si scatena, come da previsione, soltanto un paio di ore prima dell’entrata di Dianne Reeves sul palco del Santa Giuliana, praticamente completo nei 3.000 posti disponibili tra platea e gradinata. Alla talentuosa cantante di Detroit spetta l’onorato compito di introdurre uno dei live più attesi della rassegna, quello di Herbie Hancock. “Prima di lui”, disse Miles Davis, “c’erano Bud Powell e Thelonious Monk, dopo di lui non ho ancora visto arrivare nessuno”. Ma non serve scomodare nomi “sacri” del jazz per capire quanto abbia aggiunto al genere l’artista di Chicago. Sul palco del Santa Giuliana si presenta in pantaloni blu e camicia bianca e rossa, alternandosi tra un synth Korg Kronos e un pianoforte Fazio, veicoli pulsanti che trainano un viaggio fluido tra pianeti vicini e differenti: jazz, fusion, funk, elettronica, persino metal quando c’è da spingere con le distorsioni. In un passaggio del live, infatti, il monologo chitarristico dell’africano Lionel Loueke – uno che per dirla con le parole di Hancock “sembra dotato di tre cervelli anziché di uno” – si trasforma improvvisamente in un pezzo spinto e aggressivo sul quale il Maestro, ormai ottantacinquenne, non fa alcuna fatica a inserirsi ed integrarsi. Oltre al fingerpicking di Louke alle sei corde, una onorabile menzione spetta al giovanissimo Jaylen Petinaud, classe ‘98, con viso rotondo e berretto dei suoi Yankees in vista. “Potrebbe essere mio nipote”, dice Hancock durante lo show, “ma è la generazione del jazz del futuro”, e vedendolo in azione è davvero difficile non credergli.

Con lo show di Herbie Hancock se ne va anche il primo weekend di Umbria Jazz e l’inizio della settimana, grazie al meteo benevolo, ci permette di godere del soul positivo di Gregory Porter, accarezzati da una piacevole brezza estiva. L’artista californiano non è un volto nuovo a Perugia e sembra sempre autenticamente felice di tornare in Umbria. Dopo l’apertura magistrale di Samara Joy, anche lei particolarmente legata a Umbria Jazz, il baritono di Sacramento riempie l’aria di soul, jazz, blues e gospel con il suo timbro inconfondibile e quell’inseparabile passamontagna, divenuto ormai segno unico e distintivo. Particolarmente toccante l’esecuzione di “Hey Laura”, acclamata in maniera particolare dal pubblico del Santa Giuliana, e di “Take Me To The Alley”, racconto di un re dal cuore gentile, che nonostante l’accoglienza calorosa del suo popolo, si fa condurre verso i luoghi dimenticati del suo regno: i sobborghi miseri e sporchi di rinnegati e disperati. “Rest here in my garden”, canta Porter con voce profonda, “You will have a pardon”, un messaggio che in questo periodo storico sembra provenire da un altro sistema solare.

Il nostro ritorno al Santa Giuliana, due giorni dopo, è per un live molto atteso, ma anche particolarmente temuto dagli addetti ai lavori. Quella di Joe Satriani e Steve Vai, infatti, non può che essere un’esibizione “rischiosa”, ruvida e di nicchia, non solo per l’arte che i due guitar hero esprimono, ma anche, e soprattutto, per il loro approccio alla performance. Da lì in poi, per questa cinquantaduesima edizione, Umbria Jazz aprirà le porte del Santa Giuliana al funk piacione di Marcus Miller, al jazz melodico di Kamasi Washington e al pop di Jacob Collier, Mika e Lionel Richie: passeggiate in confronto allo spettacolo della SatchVai, formazione che riporta ai fasti passati del G3. Il tecnicismo rappresenta, senza mezzi termini, una cifra fondamentale dello stile dei due chitarristi americani e questo potrebbe appesantire chi per le dinamiche dello strumento non nutre una particolare sensibilità. Nonostante il live sia ideato per proporre le hit di entrambe i chitarristi, il risultato è già dai primi brani in scaletta effettivamente polarizzante. Soprattutto coloro che avevano il biglietto in platea per pura moda o per ostentare un determinato status sociale – tendenza abbastanza diffusa nell’ambiente perugino – sono stati travolti da una musica prorompente e iper-tecnica. Dopo l’apertura esclusivamente dedicata al progetto SatchVai, con Marco Mendoza alla voce oltre che al basso, lo show porta in primo piano gli sterminati talenti di Vai e Satriani. Neanche a dirlo, impressionante l’esecuzione delle rispettive hit: “Flying In A Blue Dream” e “Surfing With The Alien” per il primo, “Tender Surrender” e “For The Love Of God” per il secondo, che non sembrano perdere nulla a dispetto del tempo che passa e degli anni che avanzano senza alcun accenno di pietà. All’apparenza, certo, Satriani – sempre attratto da ambientazioni aliene e spaziali – sembra invecchiato, così come Vai – perennemente contaminato da culture remote e atmosfere orientali, ma la tecnica sullo strumento non ne risente minimamente, tanto che i due di Long Island sembrano aver scovato, almeno da un punto di vista musicale, il segreto per una vita eterna. Sebbene la musica incoraggi a rompere le righe e andare sotto il palco, i veri affezionati – spesso riconoscibili da capigliature originali o t-shirt di tour passati – rispettano le distanze imposte e si impossessano dei primi metri solo in prossimità della fine dello show, quando il rito di due chitarristi tra i più influenti della storia dello strumento si scioglie con “Born To Be Wild” degli Steppenwolf, nelle cui parole trova una una sorta di manifesto affisso con forza sulle carriere e sulle vite di due musicisti che – piaccia o no – hanno lasciato alla musica un segno indelebile: “We can climb so high, I never wanna die”.




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