Tyler, the Creator – Don’t Tap the Glass
Tyler, The Creator riapre le porte del suo universo con Don’t Tap the Glass e mette subito le cose in chiaro: niente fermate, niente contemplazioni, niente anime ferite da curare. È un inno al movimento, al corpo che parla prima della mente, e una pacca sulle spalle a chiunque provi a rimanere fermo. Lo dice subito, come un predicatore su un palco ricoperto di luci stroboscopiche: “Numero uno: muovi il corpo“. Ed è solo l’inizio.

In 28 minuti di funk digitalizzato e synth che sembrano colare direttamente dalle casse di una Cadillac del ‘91, Tyler si reinventa senza neanche provarci. Qui non c’è un concept, non c’è una storia da seguire – c’è solo istinto. Sembra uno di quei mixtape che il tuo compagno di banco ti passava di nascosto a scuola, solo che questo è cucito con la perizia di un sarto psichedelico con il feticcio di Pharrell, Big Daddy e la California più soleggiata (e più sporca). Certo, la cover è già un manifesto: torso nudo, catena a forma di emoji, pantaloni in pelle che neanche Prince avrebbe osato. Ma sotto l’apparenza da cartoon hip-hop, c’è il groove — e tanto.
“Big Poe” apre le danze con una batteria polverosa che fa l’occhiolino ai Neptunes, mentre Tyler sguazza in una piscina di synth e autocitazioni. Ogni brano è un concentrato di produzioni fotoniche: nessuno arriva ai tre minuti, ma ognuno è farcito come un panino venduto all’uscita di un after. “Sugar on My Tongue” è così maliziosa da sembrare un R&B andato a male (nel miglior modo possibile), mentre “Ring Ring Ring” riporta in vita il Tyler malinconico di Igor, ma lo immerge nel velluto glitterato della Motown. E se vi starete chiedendo se tutto questo abbia un senso… beh, non lo ha. Ma non importa. DON’T TAP THE GLASS è un disco di evasione, non di esposizione. Lontano dai labirinti psicologici di Chromakopia, qui Tyler preferisce il sudore alla psicoanalisi. Non si scava dentro, si salta sopra. E scusate se è poco.
Anche i richiami sono puro sogno californiano: la voce robotica del talkbox, le derive G-funk, i riferimenti a El Segundo e alla Pacific Coast Highway. Tutto puzza di West Coast, ma con quel twist che solo lui sa dare: glam, sgangherato, gangsta e glitch. Il punto non è se queste tracce finiranno in heavy rotation nei club di mezzo mondo — anche se alcune dovrebbero. Il punto è che Tyler, ancora una volta, ha preso un genere, l’ha shakerato con la sua estetica da adolescente post-apocalittico, e ha creato qualcosa che non ci si aspetta, ma che non si può certo ignorare. Non è il suo disco migliore. Ma è quello di cui avevamo bisogno adesso. Dannato Tyler!
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