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Trump e Netanyahu, obiettivi precisi. Al centro del cerchio di fuoco c’è l’Iran


Trump e Netanyahu, obiettivi precisi. Al centro del cerchio di fuoco c'è l'Iran

Al centro del cerchio di fuoco che aveva costruito adesso ironia della sorte si trova l’Iran: la Repubblica Islamica non sa quale sarà il suo destino, neppure il tiranno Assad ha ritenuto opportuno andarsi a rifugiare a Teheran, preferendo nascondere la sua vergogna a Mosca. Trump alla vigilia del mandato ne minaccia direttamente le aspirazioni atomiche; Israele disegna un nuovo terreno mediorientale sminato dall’odio jihadista avendone smontato tutti i piani.

Due paragoni storici spiegano la vittoria di Israele e la sconfitta iraniana. Il primo è quello dell’attacco preventivo del 1967 con la Guerra dei Sei Giorni, quando l’aviazione israeliana attaccò le forze aeree egiziane ancora a terra prevenendone l’attacco programmato per distruggere Israele insieme a siriani e giordani. Da là dopo la sconfitta subitanea del nemico, nacque la pace con Egitto e Giordania. La veloce distruzione delle armi siriane e le truppe sul Golan indicano questo: un futuro in cui i jihadisti sia sciiti (Hezbollah) sia sunniti (Hts) siano costretti alla pace.

Il secondo paragone mette audacemente insieme il collasso di Assad con la caduta del Muro di Berlino. Siamo nel 1989. Cade il muro e poco dopo l’Unione Sovietica cessa di esistere. Adesso è il regime iraniano che può fare la fine dell’Urss. Netanyahu, in un messaggio al popolo iraniano, lo ha invitato all’azione e alla speranza: ha ricordato che 20 miliardi di dollari, mentre in Iran manca tutto, sono stati spesi per i piani imperialisti dei loro tiranni. La guerra di aggressione, ha detto, caratterizza la loro politica, Israele ha vinto nel crollo del disegno di appropriarsi del Medioriente e di distruggere Israele. Il primo ministro ha detto in persiano «donna, vita, libertà», unendosi al movimento di liberazione dei tiranni e annunciando eventi che verranno prima di quanto ci si aspetti. Netanyahu non parla nel vuoto. Sa che Khamenei minaccia ma è in difficoltà come non mai: tutti i piani sono saltati, fu lui a dire che «il 7 ottobre era l’evento più importante della storia della resistenza», e adesso il suo «asse della resistenza» è smantellato. Gli Hezbollah sono stati sgominati insieme ad Hamas; è stata stroncata ogni possibilità che le armi accumulate in Siria passino nelle loro mani. Tutto è stato prosciugato dall’attacco fulmineo di Israele almeno per l’80%: missili antiaerei coi sistemi più avanzati, squadroni di aerei, il 100% dei droni esplosivi, altri 390 obiettivi fra cui sistemi di attacco, radar, armi chimiche e di altro tipo, fabbriche e depositi… Iraniani e libanesi sono spariti dalla scena che era fino a ieri casa loro, solo un passaggio di frontiera col Libano esiste ancora ed è ben sorvegliato. I cieli sono liberi: un aereo che sorvolasse Damasco avrebbe poco da temere dai nuovi padroni, i sunniti di Hayat Tahrir al Sham. Erdogan che li ha spinti osserva le possibilità che persegue di trasformare in dominio ottomano l’arma jihadista di al Jolani.

L’avvento di Trump però vale anche per lui, il fallimento di Khamenei è un’indicazione che la partita deve essere conclusa per garantire la pace che Trump chiede con determinazione a tutti prima di prendere possesso della Casa Bianca. Ha detto che intende prevenire la bomba iraniana, molto prossima secondo l’Aiea. C’è la possibilità che se ne occupi Israele. Si può fermare Khamenei, dice, con sanzioni, regole, navi, armi a Israele, bombe «bunker busting». Se non funzionasse si vedrà.

Ma ha già detto abbastanza, mentre Israele dimostrava, sul terreno, che è finito il tempo per la jihad di credere che un interlocutore credulo e moscio cada in trappola e diventi di nuovo la vittima designata del prossimo massacro. Per ora sgomberare dalla bomba iraniana per un nuovo Medioriente è l’obiettivo. Prima l’Occidente se ne rende conto, prima perseguirà la pace che desidera.


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