Economia

Trump dichiara guerra ai pacchi dalla Cina, le Poste americane vanno in tilt

ROMA — La strategia del terrore commerciale di Donald Trump inizia a colpire le spese quotidiane degli americani. E in particolare gli acquisti di abiti a bassissimo costo prodotti dai colossi cinesi della “moda istantanea” Temu e Shein, i cui pacchettini godevano fino a ieri di strada libera attraverso le dogane Usa. Non più: con le tariffe anti Cina scattate martedì Trump ha abolito la regola “de minimis” che esentava le spedizioni cinesi sotto gli 800 dollari di valore dai dazi di importazione. Questo significa che ora i beni sono soggetti alle tasse di frontiera, appena aumentate del 10%, e che le dogane dovranno verificare e validare ogni pacchettino, cosa che rallenterà le consegne. Un doppio colpo per aziende cresciute i modo esponenziale giocando su prezzo e velocità, e per i milioni di consumatori americani (soprattutto giovani della generazione TikTok) che da loro si servono. Nel 2024 sono arrivati negli Usa circa un miliardo e 400 mila pacchi sotto il valore limite, di cui quasi un terzo spediti da Temu e Shein.

Poste americane in tilt

Prima ancora che l’industria dell’instant fashion però, la tagliola di Trump ha mandato in tilt il servizio postale americano. Martedì ha annunciato che non avrebbe più accettato spedizioni dalla Cina, qualche ora dopo ha fatto marcia indietro, ma resta il problema di mettere in piedi un meccanismo di controllo e raccolta delle tasse per oltre un milione di pacchetti al giorno, cosa che poste e dogane stanno cercando di fare «assicurando i minori disagi possibili». Il regime “de minimis” esiste negli Stati Uniti dal 1930 e dieci anni fa il limite è stato alzato da 200 a 800 dollari. Secondo i critici l’esenzione avrebbe da un lato permesso ai produttori low cost cinesi di aggirare le tariffe, dall’altro favorito i trafficanti di droghe e beni contraffatti. L’obiettivo dei dazi di Trump, almeno sulla carta, è colpire il traffico di oppioidi come il Fentanyl provenienti dalla Cina.

Pechino cerca la trattativa

Ieri la Pechino ha definito «irragionevole» lo stop (poi rientrato) ai pacchi, ribadendo la necessità di un dialogo. Nelle limitate ritorsioni approvate in tutta fretta dai funzionari comunisti durante le feste del capodanno lunare – dazi su carbone, gas e petrolio americani, divieto di esportare alcune materie prime, indagine antitrust contro Google ed Apple – si legge la volontà di non infiammare lo scontro e intavolare una trattativa, visto anche come Trump ha sospeso le tariffe contro Messico e Canada. Alcune fonti avevano ipotizzato un’imminente telefonata tra lui e Xi Jinping, di cui al momento non si ha notizia.

Il bazooka dell’Europa

L’Europa, finora risparmiata dalle tariffe ma sicura di riceverle a breve, vuole adottare una strategia simile. E tra i bastoni che è pronta ad agitare di fronte a Trump, insieme alla carota di maggiori acquisti di energia e armi, ce n’è uno molto potente rivolto contro Big Tech. Lo riporta il Financial Times, secondo cui la Commissione starebbe ipotizzando di attivare lo “strumento anti-coercizione” introdotto nel 2023 per difendersi dai Paesi che cercando di influenzare le sue politiche attraverso la pressione economica (si pensava alla Cina, ma i tempi cambiano). Il bazooka, come lo chiama qualcuno, permetterebbe alla Ue di limitare o bloccare l’attività dei giganti tech americani sul proprio territorio.

Vince l’incertezza

Ieri sui mercati è stata una giornata di ordinaria stabilità, a conferma che la prima ondata di dazi trumpiani è stata metabolizzata come uno strumento negoziale. L’ottimismo stride però con il fatto che siamo solo all’inizio. In tutte le stime l’impatto economico dell’incertezza è ben superiore a quello diretto delle tariffe. Il nuovo record dell’oro, bene rifugio per eccellenza, mostra che l’incertezza è già alle stelle.


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