Treviso, è morto l’ex sindaco sceriffo Giancarlo Gentilini: leghista delle origini, fu l’antesignano dell’intolleranza in politica
TREVISO – Sarà anche per la sua età longeva, ma Giancarlo Gentilini, l’ex sindaco di Treviso scomparso all’età di 95 anni, sulla morte ci scherzava spesso. L’ultima è stata il 7 aprile quando su un profilo social è stata pubblicata la notizia della sua improvvisa dipartita. “Ma va, io sto benissimo” è stato il suo commento quasi divertito. Lo avevano visto pochi giorni prima in centro, sull’auto guidata da un amico, che si recava in municipio a Ca’ Sugana, per lui molto più di una seconda casa. È stato infatti il luogo da cui, a partire dalla fine degli anni Novanta, ha cominciato a costruire una fama di leghista duro e puro, dalle venature razziste e dall’ossessionante cura per l’ordine in città. Al punto che negli anni a seguire più volte ha ricordato che tutti i sostenitori della tolleranza zero verso gli immigrati, gli irregolari, i nullafacenti, non erano altro che dei replicanti di ciò che aveva inventato lui.
Alpino e convinto anticomunista, originario di Serravalle una delle zone storiche di Vittorio Veneto, avvocato nella potente banca Cassamarca, un feudo della Democrazia Cristiana, è stato un leghista allo stesso tempo autentico, ma anomalo. Fino all’avvento di Umberto Bossi alla guida del movimento aveva votato per la Dc, poi si era convertito al federalismo, ma da italiano, non da padano. Aveva preso le distanze dai proclami del senatur di una secessione dall’Italia. La considerava una stramberia, una cosa poco seria, perché si sentiva italiano. Comunque è rimasto leghista fino in fondo, grande amico di Gianpaolo Gobbo, che fu a lungo segretario regionale, e della vecchia guardia. Considerava Luca Zaia un giovane sveglio, che aveva raccolto (ma solo in parte) la sua eredità, mentre con Matteo Salvini non ha mai avuto una grande sintonia, intuendo come il segretario avrebbe portato il partito a guadare il Rubicone.
Per anni Gentilini è stato protagonista di battaglie (soprattutto verbali), contro Roma Ladrona, contro i meridionali, contro quelli che lui chiamava i “culattoni” e contro gli immigrati. Favorevole alle schedature degli extracomunitari, contrario ai burqa e alle donne velate. Non si faceva scrupolo di dire che gli africani venivano da una cultura inferiore. Su questo fronte ha dato il meglio (il peggio di sé), al punto da finire sui giornali di tutto il mondo. Come quando invocò la pulizia etnica verso gay, prostitute e lesbiche. Oppure quando disse che agli stranieri bisognava sparare “come ai leprotti”. Dai giardini della stazione ferroviaria fece sradicare le panchine perché altrimenti i senzatetto si stendevano per dormirci sopra. In qualche modo è stato l’antesignano dell’intolleranza, dentro una cornice identitaria veneta.
La stessa premier Giorgia Meloni che ha annunciato di voler dare la caccia ai trafficanti di uomini in tutto l’orbe terracqueo, ha detto qualcosa che già era stato inventato da Gentilini, quando se ne era uscito con: “Bisogna sparare sui gommoni e sulle carrette del mare, logicamente non quando sono ancora piene di clandestini, ma sugli scafisti, anche con un colpo di bazooka, i gommoni vanno distrutti, perché, a un certo punto, bisogna puntare ad altezza d’uomo”.
“Mi hanno dato del becero e del fascista, ma io non ho le idee degli altri, non le ho mai avute, perché ho le mie” disse una volta. Eppure le sue idee di “vagoni piombati”, pulizia etnica dei gay, di intolleranza doppio zero, di eliminazione “dei bambini degli zingari che rubano dai nostri anziani”, hanno finito per costargli una condanna definitiva per istigazione all’odio razziale, con multa salata e interdizione dai comizi. Un altro parto della sua ideologia fu l’elogio della “Razza Padana”, che declinava un po’ come un alpino, un po’ come un convinto assertore di una diversità minacciata. Una sera nel quartiere di Sant’Angelo, periferia ovest di Treviso, si rivolse agli uomini in questo modo: “Facciamo pochi bambini, per questo vengono gli arabi e i musulmani. Adesso che andate a casa, uomini della Razza Piave, prendete le vostre donne e fate… fate…”. Il popolo leghista lo applaudì. Lui si esaltava per le parole a volte sgangherate che pronunciava, senza ritegno, anzi compiaciuto.
Eppure il seguito che ha avuto è un fenomeno da studiare. È stato sindaco di Treviso per la prima volta nel 1994, sconfiggendo l’industriale Aldo Tognana, cattolico e partigiano. Fu l’inizio di un regno leghista che si è interrotto solo una volta e che continua ancora oggi. Gentilini divenne sindaco per la seconda volta nel 1999, incontrastato. Nel 2001 si permise di dire durante un tour elettorale di Francesco Rutelli, candidato del centrosinistra: “Quelli della sinistra sono nel braccio della morte. Aspettano solo il colpo sulla coppa (sulla nuca ndr) come si fa con i conigli”. Non chiese scusa. Nel 2003 dovette abdicare, per il limite dei due mandati, ma trovò l’uscita di sicurezza diventando il vice di Giampaolo Gobbo per due legislature.
Il canto del cigno avvenne nel 2013 quando si ricandidò (“Voglio arrivare al ventennio, come qualcun altro…”), andò al ballottaggio, ma fu sconfitto da Giovanni Manildo, candidato di un pallido centrosinistra. Era arrivato il momento perché Treviso aprisse le finestre. Ma al giro successivo, con la prima elezione del leghista Mario Conte, anche Gentilini tornò in campo, con una sua lista e un seggio in consiglio comunale. Un sempreverde, anche se poi ha deciso di non rinnovare la tessera, dopo aver accusato il partito di inseguire le poltrone dorate. Ormai aveva quasi novant’anni e la sua stella da sceriffo era diventato un cimelio da esibire, nei raduni di vecchi leghisti, con il cappello d’alpino in testa.
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