Veneto

Tor Vergata con un milione di giovani e il Papa. Sogno o son desto?

La folla dei giovani a Tor Vergata
La folla dei giovani a Tor Vergata

C’ero… Nonostante non sia più un giovane da un pezzo, nonostante le ginocchia doloranti che da un paio di mesi mi accompagnano come un orologio svizzero, puntuali a ogni passo, ma lancinanti come freccette sempre a bersaglio. Arrivato da Vicenza a Roma per visitare mia madre, 98enne arzilla convescente, io c’ero, confuso tra la folla, celato nella marea di zaini, sorrisi, canti e lingue diverse, mescolato a un milione di giovani che ieri sera ho raggiunto a Tor Vergata e che hanno dato corpo e voce a una speranza vera.

Vista dei giardini Vaticani dalla via Olimpica
Vista dei giardini Vaticani dalla via Olimpica

Avevo promesso a me stesso di non commuovermi. Ma è impossibile restare indifferenti davanti a quel che è accaduto. Non è retorica: è verità. Perché quando Papa Leone XIV ha parlato, in quella luce dorata che precede la sera romana, era come se parlasse anche a me. A noi “non più giovani”, a chi porta sulle spalle non solo uno zaino, ma anche la fatica degli anni, le domande senza risposta, qualche disillusione.

“Non arrendetevi alla logica dello scarto”, ha detto. “Nessuno è di troppo.”
E lì, in mezzo a un milione di ragazzi, mi sono sentito accolto. Non sopportato. Non sopravvissuto. Ma parte viva di qualcosa di grande. Di giusto.

Lui, Pala Leone XIV, Robert Francis Prevost, non ha parlato di performance, di obiettivi, di competizione. Ha parlato di ascolto, di sguardi, di mani da tendere. Ha chiesto di non lasciare nessuno indietro. Di essere luce per chi non riesce più a vedere. E mentre lo diceva, tutti – anche i più distratti – sembravano ascoltare col cuore.

C’erano bandiere da ogni angolo del mondo, sorrisi da ogni continente, eppure nessuna barriera. In quelle ore, Tor Vergata è diventata una città senza confini, un villaggio senza esclusi.

La notte è scesa piano. I canti si sono fatti più lievi, le luci dei cellulari hanno preso il posto delle stelle. E quel silenzio improvviso, dopo la veglia, non era stanchezza: era rispetto. Era pienezza.

Ho dormito lì, come tutti. Con le ginocchia che brontolavano e un telo sottile sotto la schiena. Ma con un’anima più leggera. Perché in mezzo a quei giovani, ho ritrovato anche la parte migliore di me stesso. Quella che crede ancora che l’amore sia più forte dell’odio, che la pace sia una possibilità, che la fede – anche solo come fiducia nell’altro – possa resistere alla cinica contabilità del mondo.

Questa mattina, al risveglio, Roma sembrava un po’ più nostra. E io, nonostante tutto, mi sono sentito giovane.
Perché c’ero.
E portare dentro questa esperienza sarà, da oggi, il mio nuovo cammino. Ginocchia comprese.

P.S. Quando, sul presto, mi sono svegliato per la prima volta per il rumore di un elicottero che roteava sulla via Olimpica, dove abita mia madre vicino alla Casa del papa, dove lo stava di sicuro scortando, mi sono chiesto dolorante per le ginocchia o per le ore in mezzo a quella folla di 1.000.000 di giovani a cui dare un futuro: ma c’ero veramente all’evento più partecipato del Giubileo o l’ho sognato bombardato come sono e siamo stati tutti dalle immagini e dai collegamenti delle tv e dei social?

Ero ancora confuso ma una risposta me la sono data: l’emozione che provo al risveglio definitivo e dopo un’ampia razione di caffè, vera o sognata, rimane sempre una grande emozione. Che io l’abbia vissuta o sognata.


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