Tom Skinner – Kaleidoscopic Visions
Non c’è in effetti niente di cui avere paura nell’affrontare questo secondo album solista di Skinner, come prelude il primo brano, forse una sorta di espiazione rispetto a qualche bassa autostima, forse invece un afflato consolatorio per una musica che vuole accompagnare qualche riflessione sulle nostre ansie quotidiane.

“Kaleidoscopic Visions” con i suoi toni pacati, l’impasto calibrato sembra essere la perfetta e necessaria dose quotidiana per ricondurre tutti i nostri pensieri dentro il loro normale limite, come se ci servisse una sorta di benedizione dove ritmi lenti, l’ascolto indotto riescano a penetrare con più effetto: tutto merito di questo oramai 45 enne batterista che dal passaggio negli Smile di Yorke e Grenwood ha scavallato alla grande il baricentro di risonanza jazzistica, e che in quest’album sembra avere fatto centro, proponendo in modo molto coerente col titolo, una eterogenea compilation di suoni sfaccettati, ma che rimangono dentro un mood piuttosto definito, come se l’ambiente creativo della band permeasse in modo uniforme l’opera, in cui il sound caldo dei fiati, sassofono e clarinetto, il drumming multiforme ma mai eccessivo del leader e le inserzioni liriche degli archi si affiancassero alla sempre presente vena psichedelica di Skinner, anche qui determinante nel creare un alone misterioso specie nei brani più lunghi.
Di fatto l ‘album è diviso in una prima parte strumentale, più jazzy, anche se insomma si sfiora l’avanguardia, a seguire arriva una seconda con prevalenza di cantato, in un desiderio forse di maggiore apertura e confidenza con l’ascoltatore, come ad esempio nella bellissima e nebulosa “The Maxim”, vertice dell’album, impreziosita dalla presenza della sensualissima voce della Ndegeocello, una lenta e ipnotica ballad con drumming essenziale del nostro e i sax che si inseguono morbidi attorno all’interpretazione della stella soul e finale con arpeggio fatato in chitarra classica.
Una musica ispiratrice, polivalente, che interpreta il jazz moderno come fonte aperta di un panorama oramai senza confini, rientrante a pieno titolo in quell’universo alternativo, post-“qualcosa”, dove le connessioni con un pubblico sempre più vasto, rimangono ancorate alle partiture strumentali, al nucleo intrigante dell’ensemble, all’idea antica della band in fase di creazione, come se si inseguisse un canovaccio per la genesi dell’indefinito.
Questa è la visione caleidoscopica di Skinner, multidimensionale, più che eterogenea, capace di cogliere la pancia, oltre che il cervello.
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