Thunderball: Il tempo passa ma le leggende dello sludge non mollano :: Le Recensioni di OndaRock
Tecnicamente, “Thunderball”, il ventottesimo album della loro ultraquarantennale carriera, è dei cosiddetti Melvins 1983, già visti all’azione con “Tres Cabrones” (2013) e “Working With God”(2021): Dale Crover passa dalla batteria al basso per lasciare il posto a Mike Dillard, batterista originario dei Melvins, con cui però si era limitato a registrare dei demo; completa ovviamente il leader King Buzzo. È solo una variazione, l’ennesima, in una carrietra prolifica e comunque, pur nella sua riconoscibilità, sempre in evoluzione. Questa volta, poi, il trio è stato ulteriormente alterato: Mike Dillard e King Buzzo si uniscono a Ni Maîtres al contrabbasso (!) e all’esperto di rumori Void Manes. Poco cambia, comunque, perché il marchio di fabbrica è sempre quello: un rock sporco e cattivo, distorto e sempre assordante, gioiosamente bizzarro; fangoso, come lo sludge che hanno praticamente coniato.
La breve “King Of Rome” apre con una delle loro misture di potenza e melodie inquietanti, prima della pausa di tensione di “Vomit Of Clarity”, due minuti di disturbi cacofonici angoscianti. Si entra nel vivo con il trittico finale, che ritorna ai classici brani lunghi, lenti ed esplosivi con i quali sono entrati nella storia del rock più sporco e cattivo. La gigantesca “Short Hair With A Wig” è lenta e tesa, come ci si aspetta dalle divinità dello sludge e dello stoner: 11 minuti che si baloccano inizialmente con un epico riff di chitarra, incontrano un breve interludio tribale allucinato e poi lasciano esplodere la tensione in una lenta marcia distorta, minacciata da disturbi e bave psichedeliche fino a venirne risucchiata.
Raddoppia di velocità “Victory Of The Pyramids”, nove minuti e mezzo, con un’arrembante intensità che ricorda certi Foo Fighters e quasi ne fa una parodia nei primi minuti, prima di deragliare due volte: prima un rock’n’roll scapestrato e disordinato, poi uno stoner-doom spettrale con disturbi cacofonici. La conclusiva “Venus Blood”, altri otto minuti, ritorna ai Melvins che interpretano i Melvins, girando intorno ipnoticamente e ossessivamente, a passo medio, protraendo l’attesa di una esplosione liberatoria fino a sfinire l’ascoltatore.
Poco o nulla di nuovo, piuttosto materiale ideale per chi dei Melvins non ne ha mai abbastanza: “Thunderball” non porterà nuovi adepti a una formazione leggendaria, che non vuole saperne di mollare nonostante i quattro (abbondanti) decenni di carriera sulle spalle. “Tarantula Heart” aveva anche qualcosa di più, ma lamentarsi sembra davvero fuori luogo.
07/05/2025